La pistola alla tempia di Stanley (di Ferdinando Salamino)

RIFLESSIONI SU: IL BACIO DELL'ASSASSINO 

(Di Stanley Kubrick, titolo originale The Killer's Kiss, 1955)

Si atttribuisce spesso a Orson Welles l'affermazione secondo cui diamo il meglio di noi stessi con una pistola puntata alla tempia.

Non so per certo se la citazione sia autentica, e nemmeno posso essere sicuro che il principio valga per tutti.

Di certo è valso per Stanley Kubrick nel momento in cui ha girato "Il Bacio dell'assassino", suo secondo lungometraggio.

Non un grande film, intendiamoci. Trama piuttosto prevedibile, attori non sempre all'altezza e un ritmo così così. Al netto di un talento visivo (e visionario) già intuibile e che avrebbe poi lanciato Kubrick nell'Olimpo dei grandi registi, resta poco da ricordare.

Perché ve ne parlo, allora?

Perché all'interno di questo film senza grandi virtù sopravvive una scena che non è una scena. Non è una sequenza cinematografica, bensì un vero e proprio racconto narrato dalla protagonista femminile, Gloria, mentre sullo schermo una ballerina danza nel buio, illuminata da un unico riflettore.

E' la storia di due sorelle, una delle quali morta suicida subito dopo il decesso del padre e, da un punto di vista della trama, è quasi una sequenza superflua.

Kubrick la inserì per far felice la compagna, ballerina di danza classica, che desiderava disperatamente un ruolo nel film.

Era quella, la pistola puntata alla tempia del povero Stanley, il bisogno di soddisfare quel capriccio, forse in nome della serenità coniugale.

Eppure, quella scena così superflua, diviene una storia nella storia e cambia, in modo irrevocabile, il senso stesso del film.

La storia piatta e bidimensionale della pupa del gangster che si innamora del pugile fallito diviene a un tratto il racconto di una sopravvissuta che cerca di coesistere con il proprio senso di colpa.

Gloria sente, in cuor suo, di aver mandato la sorella a morte, lasciando che fosse preda della cannibalica sete di vita del padre, spingendola sotto i riflettori per poter restare al sicuro, nell'ombra. 

Quella sorella danzante diviene il ritratto di Dorian Gray di un'anima corrosa da un'ignavia inconsapevole e capricciosa. 

Gloria ha l'istinto dei furbi, dei sopravvissuti, di coloro che svicolano senza vergogna, un attimo prima che sia tardi. Al tempo stesso, questa furbizia le è odiosa, perché la rende impura, nel confronto con una sorella che si è immolata come un agnello sull'altare del padre morente.

Mettersi di fronte alla canna della pistola, sfidare l'assassino con il proprio sfrontato rifiuto, diviene allora per Gloria un guanto di sfida lanciato contro il destino.

Solo il destino può infatti rispondere alla domanda che si porta dentro: sono degna di vivere, dopo aver condotto mia sorella alla morte?

Solo così, solo attraverso quella scena inutile e i suoi mille riverberi nella coscienza di Gloria, la vicenda prende vita e ci racconta il disperato tentativo di una donna apparentemente senza scrupoli di recuperare il proprio diritto a esistere.

Solo in quel modo è possibile dare senso all'apparente insensatezza di mettersi a rischio, proprio lei, così scaltra e fredda.

La scena inutile, la scena di troppo, il capriccio di qualcuno che con quel film non c'entra niente, diviene il cuore stesso della storia e in questo, se vogliamo, c'è il genio tangenziale di Kubrick, uno a cui talvolta le storie sgorgano quasi per inerzia, per riflesso involontario,

Non a caso è uno dei pochi registi al mondo a poter dire di aver girato un film che supera il libro (The Shining) in virtù di quell'innato talento nel generare significati con piccole, apparentemente insignificanti deviazioni dal percorso preordinato.

La bellezza imperfetta di Kubrick si intravede, prepotente e fascinosa, in questa sequenza di pochi minuti, incastrata a forza in un film che saremmo tentati di dimenticare.

A volte bastano cinque minuti per dare senso a un film, quanti ne occorrono per dare significato a una vita?

Che ne pensate?

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