Coca y Rum - di isabel Del Greco (Capitolo III della serie "Rouge)


Immergersi nel mondo colorato e pacchiano dei balli latino-americani, per chi come me aveva trascorso l'infanzia e l'adolescenza a studiare danza classica in una delle scuole più severe, era come uscire da un ricevimento all'Ambasciata e ritrovarsi in una di quelle trattorie con le tovaglie a quadretti, dove i camerieri ti insultano e ti tirano pacche sul culo. Ti sorprendevi a essere umiliata e sazia.

Avevo cominciato perché Elena, la mia migliore amica, mi aveva trapanato il cervello con quanto ci saremmo divertite, ma a essere onesta lo avevo fatto soprattutto perché mio marito mi aveva proibito di andarci.

Potrebbe sembrare che io abbia un'indole ribelle, ma la verità è che quando sei costretta a obbedire e ingoiare fin quasi a perdere la dignità, ti ritrovi a combattere battaglie ridicole solo per ricordare a te stessa che sei ancora viva.

Elena mi aveva trascinata in una cosiddetta "Accademia", una specie di tugurio alla periferia sud di Milano, e la cosa mi stava bene. Se il punto era abbassarsi, bisognava farlo fino a raschiare il fondo con i denti. Scoprii soltanto più tardi che la passione della mia amica per la suddetta "Accademia" aveva in realtà gli occhi neri e i pettorali gonfi di Giovanni, un tamarro palestrato che era proprio il suo genere.

Lo so, fa un tantino cliché questa cosa delle donne altolocate che si fanno scopare da scugnizzi di periferia, ma se vi soffermate a riflettere dovrete riconoscere con me che i cliché esistono per un motivo.

Ora, siccome ero una vincente per natura, con la competizione incisa nel DNA al pari dei miei capelli rossi, mi gettai in quell'impresa con una dedizione maniacale e, mentre quasi tutte le mie compagne di corso erano lì per elemosinare cazzi, io ero determinata a diventare la miglior ballerina di salsa della scuola.

Ero la prima ad arrivare a lezione e l'ultima ad andare via. Mi intrattenevo spesso con i veterani del corso per studiare qualche nuova figura o qualche dettaglio della postura, al punto che Elena cominciò a lanciarmi sguardi irritati e spazientiti, forse annoiata dalla mia determinazione o forse ingelosita dalle attenzioni che il mio maniacale entusiasmo suscitava.

Il venerdì sera era dedicato alla pratica libera. Ci si trovava davanti alla scuola verso le dieci e mezza e si invadeva in massa un locale a turno, proposto da uno degli allievi, per ballare fino a notte fonda.

Quelle serate, ancor più delle lezioni, gravitavano attorno a colui che tutti chiamavano "Maestro."

Il Maestro era un cubano di circa quarantacinque anni, alto non più di un metro e settanta, di una bellezza piuttosto volgare. I folti capelli neri e le labbra carnose erano i punti cardinali di un viso olivastro e squadrato, con iridi color nocciola e folte sopracciglia. I denti bianchissimi, sovente esposti da un sorriso che sconfinava nella risata, scintillavano alla luce della sala e gli conferivano un carisma poderoso e pacchiano da cui nessuno era immune. Aveva muscoli sottili e guizzanti, messi in evidenza dalle camicie slim fit e dai pantaloni attillati, e una andatura dinoccolata che conservava una certa eleganza nonostante gli assurdi tacchi delle sue scarpe di vernice nere con la punta color cammello. La sua era una specie di uniforme, che indossava con noncurante baldanzosità per sottolineare il proprio status semi-divino.

Per una sorta di piglio ribelle che in quei giorni si diffondeva dentro di me come un virus, rifiutavo testardamente di chiamarlo Maestro e, le rare volte che mi ero rivolta a lui, lo apostrofavo con il solo nome di battesimo, Armando.

Sul Maestro Armando circolavano le più disparate leggende metropolitane, in particolare sui suoi sofisticati, e al tempo stesso insaziabili, appetiti sessuali. Correva voce che scegliesse una allieva per ogni corso, e usasse tutte le sue armi di seduzione per farne il proprio giocattolo sessuale. Era quello uno dei motivi per cui, alle famose serate danzanti, Armando non arrivava mai con la propria auto. A fine serata si faceva trovare, appiedato e sorridente, di fronte all'uscita della discoteca e aspettava che la preda di turno lo caricasse in macchina e lo accompagnasse a casa. Pareva che le ragazze cedessero senza eccezione, in parte sedotte dal suo carisma impetuoso, in parte perché essere la favorita del Maestro ti poneva sotto i riflettori e apriva la strada a successive conquiste.

Se volete la mia opinione sulle leggende metropolitane, sono come i cliché. Esistono per una ragione.

La ragione mi fu evidente a partire dal terzo mese della mia frequentazione all'Accademia, quando il Maestro cominciò a riservarmi una quota supplementare di attenzioni. Non saprei dire se furono il mio entusiasmo e la mia dedizione, o piuttosto le mie chiappe modellate da danza e pilates, a guadagnarmi il ruolo di prescelta, ma mi accorsi subito che l'intero gruppo guardava a me con occhi diversi. Come in ogni ambiente umano chiuso, il cambio di rotta che la mia relazione con Armando aveva intrapreso non era passato inosservato. Potevo quasi udire il pettegolezzo che accompagnava ogni nostro passo, avvolgendoci in un involucro di energia statica sgradevole e al tempo stesso inebriante.

Armando cominciò a scegliermi sempre più spesso come controparte femminile per mostrare i passi e le figure al gruppo, riparandosi dietro lo scudo della mia bravura per giustificare quel "favoritismo" piuttosto sfacciato. Mentre provavamo i movimenti, avvertivo la sua mano sostare sulla schiena o sui miei fianchi, sempre un istante più del dovuto, troppo per ignorarla, troppo poco per protestare. Anche questa, pensai, è maestria.

Durante i venerdì sera di pratica libera, mi invitava spesso e mi trascinava sulla pista per delle vorticose esibizioni che mi lasciavano senza fiato e orgogliosa. Il suo innegabile talento esaltava i miei progressi e la mia carnagione chiara si intrecciava alla sua pelle brunita con la stessa esplosiva eleganza con la quale il rum incontra la Coca Cola nel Cuba Libre.

"Ti ha messo gli occhi addosso" mi aveva avvisata Elena, con un misto di preoccupazione e invidia nello sguardo, durante una di quelle serate. Come se non lo avessi capito da sola!

"E cosa dovrei farci, secondo te?" avevo risposto, con una scrollata di spalle.

"Ma Antonio non dice niente?"

Già. Antonio, mio marito. Quello che aveva da dire, lo aveva già detto con la consueta perentorietà da capofamiglia degli anni settanta.

Avrei dovuto smettere di frequentare l'Accademia, anzi, avrei dovuto piantarla con questa storia dei balli una volta per tutte. Peccato che, di quello che pensava Antonio, avevo smesso di interessarmi ormai da qualche anno. Lo informavo dei miei movimenti per pura perfidia, in quel gioco al massacro che ci teneva incatenati uno all'altra.

Un uomo che avrebbe potuto impormi la sua legge c'era. Avevo un amante da ormai tre anni, un'anima gemella con cui sognavo di vivere la seconda metà della mia vita. Sarebbe bastata una sua parola per tirarmi fuori da quella trappola. Purtroppo, per entrambi, come spesso accadeva, quella parola tardava ad arrivare. Intrappolato entro un contorto sistema di contrappesi morali, Giorgio, l'uomo della mia seconda vita, non si era ancora dato il permesso di portarmi via.

Siccome non mi aveva ancora regalato la libertà, non sentiva di avere il diritto di impormi nulla, e alle mie provocazioni su Armando aveva risposto con una alzata di spalle e un onesto quanto insoddisfacente "è giusto che tu agisca come credi."

Ero sola, preda designata di quel conquistatore seriale dai denti troppo bianchi. Eppure, resistetti, a lungo e con ostinazione.

Continuavo a ballare con lui, continuavo a lasciarmi scegliere nelle sessioni dimostrative, ma esercitavo un controllo ferreo sulle sue mani e non mi facevo mai e poi mai trovare con la mia auto il venerdì notte. Lo osservai accettare ogni sera un passaggio diverso, per mesi.

Di giorno in giorno, le sue carezze si facevano più audaci, e nel congedarmi aveva cominciato a sussurrarmi all'orecchio "forse un giorno..."

Lo diceva con un accento latino che non mi piaceva, ma il suo alito caldo sul mio viso era comunque una lusinga della quale, in quei giorni, ero assetata.

Era un venerdì pomeriggio di inizio settembre quando decisi di sollevare di nuovo l'argomento con Giorgio. Distesi sul divano di casa mia nella quiete post-orgasmica, ci guardavamo negli occhi con quel misto di trasporto e rimpianto che ci coglieva ogni volta che scoprivamo quanto era bello stare assieme, e quanto aleatorie e precarie fossero quelle parentesi.

"Mercoledì a lezione mi ha sfiorato il culo" dissi, imbronciata come una bambina cui avessero rubato la bambola preferita.

Giorgio assunse quello sguardo di traverso che usava quando si metteva sulla difensiva. Le sue iridi color ghiaccio mi lambirono, generando un brivido di eccitazione che mi sforzai di ignorare.

"E gli altri lo hanno notato?"

Quella risposta innalzò il mio livello d'ira oltre la soglia di guardia.

"Cosa cazzo vuoi che me ne freghi?! Io lo sto dicendo a te!"

"Sai come la penso" disse, sollevandosi sui gomiti. Per farlo, sciolse il suo abbraccio, e a un tratto mi sentii sola.

"No, io non ho capito un cazzo di come la pensi, e questo, al momento, è il più grande problema della mia vita."

"Io ti amo" disse, quasi come se volesse disinnescare la conversazione.

"Allora dimostramelo. Usciamo allo scoperto, insieme."

"Non è ancora il momento" sospirò. Odiavo quel sospiro più di ogni cosa al mondo. Significava che era spazientito, che riteneva di essersi spiegato alla perfezione e che mi stavo comportando in modo illogico. Quel sospiro era un vento che mi allontanava da lui.

"Quando, allora? Quando?"

"Abbi fiducia in me - rispose - ti ho promesso che questo è il nostro ultimo anno divisi, e sto facendo in modo che accada."

Mi abbracciò ancora, e mi abbandonai contro il suo petto muscoloso. In altre circostanze quella risposta era stata sufficiente, ma in quella giornata torrida e soffocante sentivo il bisogno di respirare (era un po' strano che in una giornata torrida ci fosse bisogno di un fuoco che scaldasse, ho preferito connettere il soffocare ad una speranza che dà respiro) una speranza che fosse un po' più vicina, tangibile. Le promesse a cadenza annuale non bastavano.

"E con Armando, cosa devo fare?" chiesi, aggrappandomi a quell'ultima scintilla di provocazione.

"O sei mia, o sei di chi vuoi tu. Non sei ancora mia."

Aveva ragione, ovvio, e odiavo che avesse ragione.

Quella sera, scelsi un corto abito blu elettrico con la schiena scoperta, un ridottissimo perizoma color oro e scarpe del medesimo colore. Applicai con cura la matita sugli occhi e l'acceso rouge di Chanel sulle labbra. Più rendevo il mio corpo sfavillante, più sentivo il mio cuore intristirsi, come se fossi diventata il ritratto di Dorian Gray di me stessa. Sapevo quello che stavo facendo e perché, e la cosa mi lasciava il retrogusto malinconico delle occasioni perdute. I tre preservativi che avevo infilato nella borsetta mi parvero pesanti come una sentenza, mentre richiudevo la porta alle mie spalle.

Non partecipai alle danze, quella sera. Mi feci trovare all'uscita dalla discoteca, le quattro frecce della mia Golf nera che ammiccavano nella semioscurità della strada.

Armando era lì, sorridente come sempre, che salutava gli allievi con abbracci e strette di mano. Mi notò dopo qualche minuto, e si avvicinò alla macchina con il suo passo felpato.

"Non ti ho vista, stasera."

"Perché non c'ero."

"Come mai?"

"Come torni a casa?" chiesi, ignorando l'ultima domanda.

Armando sfoderò uno dei suoi sorrisi.

"Con te, credo."

"Sicuro?" lo sfidai.

"O così o a piedi" disse. Aveva quel modo latino di trascinare la esse che di certo riscuoteva un successo unanime tra le zoccolette del corso, ma io lo trovai posticcio.

"In effetti - risposi, indicando con lo sguardo davanti a me - sembrerebbe che il tuo mezzo di trasporto alternativo sia in partenza."

Osservammo assieme le ultime due allieve barcollare sui tacchi e infilarsi in macchina, una ventina di metri più avanti.

Armando mi rivolse uno sguardo che voleva apparire sconsolato.

"Ed ecco che sei la mia ultima esperanza!"

Gli sorrisi.

"Pare di sì" dissi, aprendo per lui la portiera del passeggero.

Nel salire, diede una lunga ed eloquente occhiata alle mie gambe nude. Il vestito risaliva lungo le mie cosce fin quasi a scoprire il perizoma, e Armando non fece alcun mistero di cercare proprio quel tesoro non troppo nascosto.

"Quando hai finito di goderti il panorama, potresti dirmi dove devo andare?"

"Scusa - rispose, ma non sembrava affatto dispiaciuto - vai dritta fino al secondo semaforo e poi gira a sinistra."

Cominciai a seguire le sue indicazioni, e al tempo stesso intrattenni una delle conversazioni più vuote della mia vita, discorrendo dello stato dei locali latino-americani in Italia e delle scarpe che era meglio indossare sulla pista da ballo. Una parte di me si sentiva come una pecora che aveva imboccato la via per il macello, e quella sensazione di ineluttabilità, per qualche motivo, scatenava la mia eccitazione.

"Non eri mai venuta con la tua macchina" osservò Armando, mentre eravamo fermi a un semaforo.

"Mi avevano sospeso la patente" mentii. Avvertii la sua mano posarsi sul ginocchio con sfacciata noncuranza. Quel contatto tiepido mi diede un brivido immediato e intenso, di quelli che soltanto le scelte sbagliate sanno darti.

"Sei una bimba cattiva..." insinuò, mentre la mano risaliva, lenta ma inesorabile, lungo la gamba. Era tutto così scontato e dozzinale che quasi mi strappò un sorriso di autocommiserazione, ma al tempo stesso la mia fica batteva il tempo come un metronomo, e dischiusi appena le gambe per permettergli di saggiare la pelle delle mie cosce.

"Alla fine, ce l'hai fatta" dissi.

"A fare cosa?" domandò con ostentata innocenza.

"A portarti a casa anche me."

"Sei stata muy difficile" concesse, mentre con le dita sfiorava il mio perizoma con delicatezza.

"Eppure, eccomi qua" mormorai, accompagnando quella resa con un piccolo gemito. Mi fece aprire le gambe un altro po' e si infilò sotto la stoffa, massaggiandomi con una sapienza maturata sulla pelle delle sue innumerevoli prede.

"Così andiamo a sbattere" lo ammonii, mentre sentivo le ondate anticipatorie dell'orgasmo attraversarmi le viscere. Armando sfilò la mano e se la portò platealmente davanti al viso, strofinando tra loro il pollice e l'indice cosparsi dei miei liquidi.

"Scusa. Ma ho aspettato tanto."

"Ormai hai vinto - risposi - non ti costa nulla aspettare ancora un po'."

Percorremmo le strade della città per circa mezz'ora, e quasi mi persi nella vertigine delle svolte e degli incroci che attraversammo. Mi fece parcheggiare all'imbocco di una piccola via privata, una ordinata strada con siepi basse ai due lati e una fila di edifici ben tenuti, ma tutti uguali.

Scese prima di me e corse ad aprirmi la portiera, in un gesto di galanteria che trovai artefatto quasi quanto la sua esse cubana.

Aprì il cancello di metallo che sembrava fresco di riverniciata e mi cedette il passo poi, appoggiandomi con delicatezza la mano al centro della schiena, mi accompagnò davanti a una seconda porta a vetri.

Avvertii il suo pollice giocare compiendo piccoli cerchi sulla mia pelle, e cedetti a quel contatto con finta riluttanza.

Attraversammo la portineria vuota e salimmo in ascensore. Appena il tempo di premere il tasto che portava al quarto piano e mi ritrovai la sua lingua in bocca. Sapeva di rum, Coca Cola e tabacco, una miscela che trovai irresistibile.

Lo accolsi, stringendo le sue spalle strette e al contempo muscolose mentre le sue mani cominciavano a esplorarmi sotto il vestito.

La porta dell'ascensore si aprì con un trillo, e scivolammo avvinghiati fino al suo appartamento.

Si staccò da me per infilare la chiave nella toppa e spalancò la porta con un gesto teatrale.

"Accomodati" disse.

Mi guardai attorno, entrando nella stanza. Era una specie di open space la cui intera architettura gravitava attorno al letto futon con lenzuola di un rosso vivo. Il parquet era disseminato di portacandele in stile etnico e c'era un gong per la meditazione vicino alla parete, alla sinistra del letto. Un angolo cottura deserto occupava una manciata di metri quadrati a destra dell'ingresso. Dall'altro lato c'erano una libreria inaspettatamente nutrita e un angolo da giorno costituito da divano e basso tavolino da caffè. Non c'era televisore, nessuna scrivania.

"Dunque, è questo" mormorai.

"Cosa?" chiese lui, avvicinandosi alle mie spalle e cominciando a palparmi i seni da dietro.

"Il tuo scannatoio. Mi ero sempre domandata che aspetto avesse."

Parve contrariato da quella osservazione, come se fargli notare che il nostro era l'incontro tra uno scopatore seriale e una troietta avesse sollevato il velo di romanticismo che tanto gli piaceva.

"Non te piace?" chiese, accentuando il suo accento latino quasi come autodifesa.

"Va benissimo. Non voglio niente che potrei rimpiangere domani."

"Niente?" chiese, ricominciando a baciarmi con passione. I suoi occhi nocciola addentarono i miei, facendomi sanguinare di eccitazione.

"Forse qualcosina" ammisi, gettandomi a capofitto in quelle labbra dall'aroma delizioso.

Mi lasciai frugare ovunque, slacciandogli al contempo la camicia per esporre quel corpo piccolo e perfetto, così diverso dalla presenza monumentale di Giorgio.

Era proprio la differenza a eccitarmi. La semplicità di quella scopata facile, contrapposta ai mille tranelli del mio amore tormentato.

"Dimmelo perché siamo qui" sussurrai all'orecchio di Armando, mentre lo mordicchiavo con affondi leggeri dei denti e delle labbra.

"Cosa?"

"Perché. Perché mi hai portata qui?"

"Perché sei stupenda."

"Cazzate! - mi ribellai, afferrandogli il mento tra il pollice e l'indice - ne porti a dozzine, qua dentro. Dimmi perché sono qui."

"Per scoparti" mi disse, divincolandosi dalla mia stretta e ricominciando a lavorarsi la mia pelle.

"Per scoparti" ripeté.

"Bravo. Allora scopami", e quasi ad avvalorare quella richiesta, gli afferrai il cazzo già duro attraverso i pantaloni.

Mi liberò del vestito con pochi gesti fluidi e mi sospinse davanti a sé. Appoggiai le mani sul bordo della bassa parete che divideva l'angolo cottura dalla zona del soggiorno. Inarcai la schiena e aprii le gambe, invitandolo a darsi da fare. Senza esitare, Armando si inginocchiò alle mie spalle e tuffò il viso tra le mie natiche. Avvertii la sua lingua esplorare entrambi i miei orifizi attraverso la stoffa del perizoma, resa sempre più inconsistente dalla sua saliva e dal mio piacere.

Scostò il sottile indumento con le mani e si dedicò al compito con una passione che mi sorprese e quasi mi travolse, era come se la sua bocca avesse mille terminazioni, e Armando la usava con giocosa fantasia. La sua lingua percorreva le mie labbra, o picchiettava sul mio clitoride, oppure affondava all'improvviso nel mio culo, obbligandomi a mordermi le labbra per soffocare le grida. Armando alternava questi gesti con istinto perfetto, come se sapesse di volta in volta quale movimento avrebbe amplificato il mio piacere.

Mi voltai e scostai le inutili mutandine offrendogli la mia fica da leccare ancora. Non se lo fece ripetere, usando la lingua di piatto e di punta come fosse una spada, trafiggendomi a più riprese fino a farmi abbandonare qualunque perplessità o inibizione.

Mi sfilò lo slip, abbandonandolo sul pavimento, e riprese a leccare la mia carne ormai libera.

Venni nella sua bocca, affondando le dita nella sua selva di capelli neri e premendogli il viso contro la mia fica fin quasi a farlo soffocare, mentre urlavo il mio piacere alle pareti nude della sua alcova. Fu l'unico gesto di dominio che mi concessi quella notte, quasi volessi dirgli che mi aveva conquistata ma non sconfitta.

Si sollevò e mi baciò ancora, lasciandomi assaggiare il mio stesso sapore sulle sue labbra.

"Ora tocca a me" dissi con un sorriso, e scesi con le labbra lungo i suoi pettorali e il suo addome fino a trovarmi la sua erezione, ancora costretta nei pantaloni, di fronte al viso.

Giocai un po' con le labbra attraverso la stoffa, poi lo liberai. Era un bellissimo esemplare, perfettamente depilato, con una radice ampia e nodosa e una cappella che svettava orgogliosa, larga come la testa di un fungo. Sembrava ancora più grande, in proporzione con quel corpo minuto, ed emanava un delizioso profumo di maschio e di pulito.

Danzai con la lingua sulla punta del suo cazzo mentre lo fissavo negli occhi con insolenza.

"Non essere perfida" mi supplicò, e in risposta alle sue preghiere lo feci scomparire tra le mie labbra.

Cominciai a scivolare avanti e indietro, guidata dalla sua mano appoggiata sulla mia testa, e assaporai le bellissime sensazioni di quel cazzo così primitivo e banale, un pezzo di carne privo di promesse, e quindi di complicazioni.

Armando grugniva il proprio piacere in modo sempre più selvaggio, via via intensificando la presa sui miei capelli fino ad abbandonarsi alla più pura dominazione. Portai entrambe le mani dietro la schiena, imprigionandole entro manette immaginarie, per assecondare la sua sensazione di possedermi. Armando recepì quell'invito e cominciò a sferzarmi con parole sporche.

"Brava troia, lucidalo per bene."

Obbedii, succhiando e leccando finché la pelle scintillò alla luce diafana delle candele, ricoperta della mia saliva.

Mi aiutò a rialzarmi e mi accompagnò fino al letto, facendomi sdraiare sotto di lui. Attorcigliai le mie gambe attorno ai suoi fianchi e piantai le mie mani sui suoi glutei duri come ferro.

Armando appoggiò la cappella all'ingresso delle mie labbra e rimase così, reggendosi su un solo braccio, sospeso con gli occhi fissi nei miei.

"Dimmelo che lo vuoi" mi esortò.

"Lo sai" risposi, mentre mi dimenavo per l'impazienza.

"Tu sei una signora dei quartieri alti. Sei venuta a ballare per fare ingelosire tuo marito, vero, troia?" mi sferzò, mentre con la mano guidava il suo cazzo avanti e indietro lungo la mia fessura, facendomi impazzire sempre di più. Pur nelle nebbie del piacere, riuscii a sorridere del suo errore di valutazione.

"Ci hai quasi preso."

"Di noi non ti frega un cazzo, scommetto che con quell'altra puttana della tua amica ci prendi per il culo."

Avanti e indietro, avanti e indietro. Sentivo la sua carne premere contro di me, e il bisogno di sentirla dentro mi strappò un gemito.

"Ti prego... aaaah..."

"Me l'hai agitata davanti per mesi."

"Non ti conoscevo" mi difesi, e dentro di me lo supplicai di spingere.

"Ora mi conosci. E adesso me lo devi chiedere."

"Scopami" sussurrai, e spinsi il bacino verso l'alto per invitarlo dentro.

"Cosa? Non ho sentito."

"Scopami" ripetei.

"Non essere maleducata, chiedi per favore" disse, e spinse appena appena. La mia fica si dischiuse per lui, lasciando entrare i primi centimetri di quella carne.

"Oh, sì... ancora. Dammene ancora, ti prego."

Entrò ancora di un paio di centimetri, e cominciò a dondolare dolcemente.

"Va bene così?" chiese con finta innocenza.

"Ancora - gemetti, ormai in preda a spasmi di eccitazione e impazienza - ancora, ti scongiuro."

Mi regalò ancora qualche centimetro, e la cappella fu tutta dentro di me. Sospirai di un sollievo temporaneo, prima di accorgermi di quanta fame avessi ancora.

"Tutto. Dammelo tutto."

"Lo vuoi tutto?"

"Voglio tutto il tuo bellissimo cazzo. Scopami adesso."

"E..?"

"Per favore" mi arresi.

Un'unica, potente spinta liberatoria, e fu mio. Cominciò a penetrarmi con colpi decisi, scanditi e ritmati in un crescendo furioso e al tempo stesso controllato. Lo baciai con passione, intensificando la presa sul suo culo, come annaspando nel tentativo di catturare la sua carne.

Mi scopò in un silenzio rotto soltanto dai suoi ansiti e dai gemiti che gli riversavo nella bocca. Non riuscivo a smettere di cercare quelle labbra carnose, e continuai a baciarlo fino a quando sentii l'orgasmo emergere dalle viscere e travolgermi. Rovesciai la testa all'indietro e mi lasciai andare a un grido selvaggio fatto di piacere e rivalsa. Le mie pareti si contrassero, accompagnando le sue spinte in un crescendo che lo fece esplodere quasi all'unisono con me, poi mi afflosciai sotto di lui.

Armando rise, carezzandomi il viso e i seni, e si adagiò accanto a me.

Mi sfiorò la soffice linea di peli pubici con inusitata tenerezza, poi cominciò a giocare ancora col mio clitoride.

"Non sei sazio?"

"Mai" rispose con una risata che scoprì i denti candidi. Si piegò a leccarmi un capezzolo, poi lo mise in bocca, succhiandolo con avidità. Le dita della sua mano scivolarono lungo la mia fica e le carezze si intensificarono. Sentii un dito penetrarmi a poco a poco, seguito da un secondo. Sentivo il suo palmo sul clitoride, mentre le dita si muovevano dentro di me con intensità crescente.

"Cosa vuoi farmi?" chiesi, a un tratto allarmata, sollevandomi di scatto sui gomiti.

"Stai tranquilla, rilassati" rispose, accarezzandomi i capelli.

Reclinai la testa all'indietro e mi abbandonai a lui e al suo tocco. Le sue dita raggiunsero un punto dentro di me che cominciò a espandersi e vibrare, in risposta a quelle insolite sollecitazioni. Mi sentivo diversa, come se il piacere fosse accompagnato da una sorta di rumore di fondo che risuonava, conturbante e misterioso, dentro di me. Armando iniziò a pompare con la mano, usandola come uno stantuffo.

Cominciai a gemere, poi a gridare, mentre il movimento delle sue dita si faceva sempre più intenso e veloce, fino a divenire furioso. Avevo sempre detestato il tocco troppo energico, preferendo carezze delicate, ma quella volta era diverso, e l'impeto di quelle dita sembrava schiudere sentieri di piacere del tutto inesplorati e ambigui.

Non sapevo se stessi per avere un orgasmo o per urinare. Tutto ciò che sapevo era che in qualche modo il mio corpo non mi rispondeva più. Mi divincolai e tentai di chiudere le gambe, cercando di sottrarmi a quella forza sconosciuta, ma Armando mi bloccò con il suo peso e con l'altra mano mi costrinse a tenere le cosce spalancate.

"Calmati - disse - non succede nulla. Fidati di me."

Lasciai che facesse ciò che voleva, mentre il contatto si faceva sempre più liquido e sentivo dentro come il montare di una marea. Qualche istante dopo, fui travolta da un orgasmo vorticoso che mi fece vibrare come un diapason tra le sue braccia. Esplosi come un vulcano, schizzando schegge di piacere ovunque.

"Che cosa mi hai fatto?" domandai, incredula mentre ancora mi contorcevo tra le lenzuola fradicie dei miei liquidi.

Armando mi rispose con un sorriso sornione.

"La prossima volta che mi accompagni a casa te lo spiego" disse.

Impiegai quasi due minuti a riprendermi da quell'uragano, minuti durante i quali Armando mi baciò incessantemente i seni, l'addome e la fica intrisa di effluvi.

"Sei soddisfatta, mia signora?" chiese, quando mi fui calmata.

"Fatti anche il culo, dai" risposi, cogliendolo alla sprovvista.

"Sicura?"

"Come ti ho detto, non voglio niente che potrei rimpiangere domani."

"Aspetta" disse. Raccolse una delle candele dal pavimento e si alzò. Lo sentii scivolare verso la cucina e aprire il frigorifero. Qualche istante dopo, le mie narici avvertirono un inconfondibile aroma di burro fuso.

"Sei un fan dell'ultimo tango, eh?" sospirai, e mi voltai a sorridergli.

Non credo che avesse afferrato la battuta, ma mi sorrise di rimando e tornò a sedersi accanto a me. Appoggiò la ciotola di burro fuso di fianco al letto e mi accarezzò il viso e i capelli.

"Sei pronta, tesoro?" domandò, e all'improvviso la sua esse strascicata fu eccitante.

Annuii. Mi misi a quattro zampe sul letto, in attesa, offrendogli la piena vista di quel trofeo che ormai gli apparteneva. Armando cominciò a lavorarmi con delicatezza, prendendosi molto tempo. Assaporai la dolcezza delle sue dita attorno e dentro il mio sfintere, mentre le labbra mi coprivano di baci la schiena e le natiche. Mi lasciai cullare dal caldo contatto della fluida crema di burro sulla mia carne. Fu premuroso e attento, un vero gentiluomo. Il suo cazzo duro e vibrante era l'unico segno della sua impazienza.

Si posizionò alle mie spalle e spalmò un po' di burro sulla cappella, poi la appoggiò con dolcezza all'ingresso. Cominciai a respirare profondamente, cercando di rilassare i miei muscoli interni e prepararmi a quella intrusione così desiderata e temuta.

"Chiedimelo ancora" mi sussurrò all'orecchio.

"Fammi il culo" dissi, e così fu.

Il lunedì sera seguente, a lezione, sentivo ancora male. In coda a tutte le gentilezze e le cautele che mi aveva usato, Armando mi aveva spaccata in due senza troppi complimenti e senza farsi mancare proprio nulla. Notai che diversi allievi del gruppo mi osservavano con aria allusiva, intuendo che la mia camminata storta aveva una sola spiegazione.

Mentre mi scaldavo prima di iniziare, vidi Armando in un angolo, intento a parlottare con uno degli allievi veterani.

Guardavano nella mia direzione, e ridacchiavano.

Potevo facilmente immaginare quella conversazione a mezza bocca.

L'altra notte le ho rotto anche il culo.

Non dire cazzate!

Giuro, me lo ha chiesto lei. Non vedi come cammina?

E faceva pure la santarellina che salutava appena.

Alla fine, è una troietta come tutte le altre.

Risate.

Qualcosa del genere.

Ero diventata parte della leggenda metropolitana, e la cosa non mi piacque.

O forse sì.

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