Esperienza di editing collettivo - prologo di Massimiliano Agarico 

(parte I)




BORDERLINE
(Il viaggio, il libro e la farfalla)

"A volte le persone giuste si incontrano nel momento sbagliato. Altre volte invece, sono le persone sbagliate a incontrarsi nel momento giusto".

Prologo

«Ciao, stronzo. Sì, proprio tu. Giusto per essere chiari fin da subito: io non sono quello bravo. Lui ormai non si trova più tra noi, e dovrai accettare questo fatto per poter continuare, che ti piaccia o no. Se non ti sta bene, richiudi in fretta questo fottuto libro e vattene.»

Joel Paulo "Pajo" Aranda, uno tra i più importanti e grotteschi personaggi che si alterneranno lungo questa storia, senza compromessi né mezze misure chiarisce fin da subito cosa si dovrebbe accettare per poter ascoltare la sua particolare esperienza, e magari viverla.

Soltanto emotivamente, s'intende. Perché questa storia andrà a intrecciarsi insieme a quelle non meno importanti degli altri protagonisti che ne incroceranno il percorso, e arriveranno a fondersi insieme per diventare una soltanto, totalmente impregnata di cruda follia.

Mettetevi comodi, quindi, ed evitate di affannarvi nell'inutile ricerca di un senso vero e proprio per ogni cosa che accadrà. Non lo troverete, perché non esiste.


1

«Al risveglio quasi tutti i miei denti si trovavano dentro un sacchetto di cuoio legato intorno al collo che continuava a dondolare e picchiarmi sul muso. Il sudore e il sangue che perdevo da bocca, naso e chissà quale altra parte del corpo, sembrava scivolare veloce in alto, contro il soffitto.

Ma poco alla volta la mia testa dolorante, gonfia e pesantissima, e le mani legate che dondolavano a peso morto sopra il cranio... tutto, porcaccia puttana, proprio tutto, mi diceva che ero a testa in giù, saldamente legato per le caviglie a una specie di forca» e mentre prosegue nella spiegazione, sì agita mimando movimenti strani, quasi contorcendosi per l'eccitazione.

«Ciondolavo come un quarto di bue in una cella frigorifera puzzolente e buia che sembrava scrollata di continuo da un terremoto. Sembrava mi prendessero a bastonate da tutte le parti, ogni volta fino allo svenimento.

Soltanto dopo mi accorsi che era la stanza a muoversi, mentre io rimbalzavo contro qualsiasi cosa avessi intorno senza riuscire a vedere quasi niente, perché gli occhi erano così gonfi di botte da non riuscire ad aprirsi completamente.»

«Come poteva muoversi una stanza?» domanda la titubante voce che gli sta proprio di fronte.

«Non era una stanza, ma una di quelle stramaledette carrozze di ferro che marciava senza cavalli, di cui avevo solo sentito parlare. Enorme. Satura di quel fottutissimo odore rancido rinchiuso lì dentro insieme a me.»

E, pur mostrando il suo disgusto con un grugnito, prosegue la minuziosa descrizione.

«Già durante la fuga nel deserto la mia pelle era impregnata del piscio caldo che ero stato costretto a bere per non crepare. Tanfavo così tanto da schifare persino me stesso, ma una volta trascinato con forza là dentro da sei incappucciati e appeso per i piedi, tutto lo schifo appiccicato addosso mi è scivolato fino alla faccia, mischiandosi a vomito e sangue che continuavo a perdere da naso e bocca.

Oltre al dolore per le botte appena prese, pure quella fottuta puzza non voleva proprio lasciarmi in pace! Usciva e rientrava dai pori. Continuamente, cazzo! E poi, appena prima di svenire, ho sentito nuovamente scorrere lungo il corpo il rivolo caldo del mio piscio... eppure eccomi qua! Dopo la fuga da quel covo di merda, questo capolavoro creato certamente da un folle e rilegato in pelle è ancora qui, tra le mie mani».

E con un tonfo che fa tremare le due pinte di birra sul tavolino, richiude il pesante libro appoggiato proprio al centro, sollevando quella patina di polvere che si forma sempre sopra qualsiasi cosa a causa del perenne andirivieni di vento afoso del deserto nel vecchio saloon.

«Allora, stronzo, mi stai seguendo?» domanda con il tono autoritario della sua voce profonda e leggermente rauca, come se il flusso d'aria, invece che fargli vibrare le corde vocali, accarezzasse un foglio di carta vetrata.

«Sì. Ho capito» risponde dimesso padre Rolando, mentre abbassa lo sguardo.

Il reverendo tiene entrambe le mani distese e aperte ai lati del grosso libro che gli è appoggiato davanti. Tremano vistosamente, bagnate di sudore e sangue, e la destra ha un grosso foro attraverso il quale si riesce a intravedere il legno del tavolo sul quale poggia.

«Sfilati un attimo quello schifoso colletto bianco, e mostrami questo» dice, alzando il crocifisso d'argento intorno al collo.

Rolando sfila il collarino ecclesiastico e i primi due bottoni, lasciando intravedere un piccolo crocifisso identico a quello di Pajo.

«Bene! Adesso alza il bicchiere e brindiamo al nostro incontro, stronzo. E copriti l'altra mano, che stai sporcando tutto!» continua sbrigativamente, lanciandogli la coloratissima bandana che aveva intorno al collo.

Padre Rolando digrigna i denti, ingialliti da anni di alcol e fumo, e non per rabbia, ma per il ribrezzo e l'acuto dolore che prova stringendo intorno alla ferita aperta quella bandana fradicia di un sudore che non è suo.

Strizza forte gli occhi e corruga la fronte umida ma, non appena li riapre, fissa senza più esitazione l'uomo che gli siede di fronte, dicendo a gran voce: «Che Dio mi perdoni allora, oppure mi fulmini! Al nostro incontro!»

Pajo risponde con una sonora risata che scopre i pochi denti sani rimasti e alza il boccale, picchiandolo con decisione contro quello già in attesa a mezz'aria di padre Rolando. Lo porta veloce alla bocca bevendone in un sorso l'intero contenuto, e infine lo sbatte con forza sul tavolo, facendo rimbombare il botto nell'intero saloon.

Mentre Pajo si ripulisce velocemente la bocca con l'avambraccio, padre Rolando porta il boccale alla propria ma, non appena tenta di trangugiare un primo sorso di quella birra già tiepida, il mescolarla con il sangue nella gola e respirare quel miscuglio di odori stantii che aleggiano intorno, gli procura un violento conato di vomito che riesce a frenare a stento.

«Vedi di non vomitarmi addosso, stronzo, sennò riduco quel musone sbiancato che ti ritrovi nella stessa maniera in cui ti hanno conciato la mano. Intesi?»

Trattenendo la nausea, Rolando china la testa e chiude gli occhi, contrae con forza lo stomaco e deglutisce con sofferenza, alzando la mano in segno di assenso.

Il grande locale, solitamente pieno di vita, musica e schiamazzi, è completamente vuoto, tutto per loro due. Restano a completa disposizione soltanto il paffuto oste e il vecchio pianista indiano dai lunghi capelli grigi, che nel frattempo non si è fermato un attimo di suonare vecchie ballate allegre, certo per timore di dolorose conseguenze.

Il tempo di un istante e, mentre all'interno del locale tutti gli sguardi si frugano intensamente, una farfalla arancione si posa sullo stipite della porta e subito vola via, spaventata da una folata di vento caldo che porta con sé un silenzio improvviso e quasi totale.

Si blocca l'oste dietro il bancone e si pietrifica il pianista, sgranando gli occhi verso l'entrata, dopodiché si sente il cigolio delle vecchie cerniere della porta a vento alle spalle di Pajo, che si volta facendo stridere la sedia e vede le due ante dondolare avanti e indietro. Qualcuno è entrato.

È un uomo dall'aspetto distinto, con un abito nero di alta sartoria: giacca lunga, panciotto, pantaloni e cravatta a fiocco sulla camicia grigia. Sul suo viso risaltano pizzetto, baffi a punta molto curati e impomatati con costose creme, cappello a tesa larga leggermente inclinato sulla destra e in avanti.

In mezzo a tutto quel nero, indossato con estrema disinvoltura, spiccano l'orologio d'oro da taschino, spillato all'altezza del cuore da una catenina con lo stesso crocefisso di Pajo e Rolando, e due enormi luccicanti Colt argentate che spuntano dalla giacca, sui fianchi, con l'impugnatura in avorio girata in avanti. Anche gli stivali in pelle lucida non possono certo passare inosservati, pur nascosti dal gambale dei pantaloni.

L'intero scenario sembra un fotogramma antico, sapientemente sfocato in color seppia da un abilissimo fotografo: ogni più piccolo particolare bloccato in quel momento sembra ricordare l'entroterra americano di fine Ottocento, il vecchio indimenticabile Far West di frontiera: tumbleweed che rotolano lenti sulla terra battuta, zoccoli di cavalli che trottano stanchi e ruote di carrozze sempre di corsa a sollevare immense e polverose nuvole.

Poi Colt, Revolver e Winchester luccicanti che pendono da cinturoni e selle di cuoio e infine, come uno sputo di tabacco sulla sabbia chiara del deserto, legno ovunque: le case, la chiesa, l'unica banca, marciapiedi e abbeveratoi, le insegne delle botteghe dipinte a mano con colori vivaci e appese in alto con catene che dondolano a ritmo del vento, emettendo quel lamento strano, ognuna con i suoi particolari cigolii.

Così, mentre fuori gran parte della pacifica comunità corre a casa oppure si disperde nei vicoli, alcuni giovani coraggiosi, o probabilmente soltanto stupidi, sbirciano silenziosi, appoggiati agli stipiti dell'entrata e dei due grandi finestroni laterali del locale.

«Ah! Bene! Ecco l'altro pendejo. Era ora che arrivassi anche tu, Chuco! Dai, accomodati insieme a noi» dice Pajo con un sorriso sarcastico, spostando la sedia ancora vuota al suo fianco....


Un boato. Un'esplosione[as1] fragorosa e il fuoco divampa improvviso, squarciando l'oscurità. Fuoco vivo, che arde tutt'intorno e distrugge ogni cosa, senza scampo. Un rogo inestinguibile e talmente incandescente da divorare e sciogliere persino l'acciaio... [as2]

Poi, un perentorio quanto istintivo «Cacchio!» che nel buio rompe il silenzio, come lo squarcio di un fulmine accompagnato dal fragore del tuono, e Pajo si risveglia di colpo[as3] , fradicio di sudore e spaventato da quella strana sensazione di quando si cade in un vuoto senza fine né respiro, per poi riaprire gli occhi soltanto il momento dell'impatto, quell'istante prima della morte, con lo stomaco che si strappa con violenza dal resto delle viscere.

In fin dei conti però, è stato un sogno: bello o brutto, «Si è trattato soltanto di un fottuto scherzo del cervello».

Perché, in effetti, Pajo non è propriamente quel che si definirebbe un duro e, pur apprezzando Sergio Leone e Clint Eastwood, neppure un patito di western. Soprattutto non si chiama Pajo, e quella che lo sorprende è soltanto la tipica mattina di sole lomellino durante un anonimo sabato qualsiasi, tra risaie ondeggianti e zanzare sudate.

Oltre il vetro della sua finestra, anche il cielo più limpido si mostra quasi sempre pallido e tiepido, che sia estate oppure inverno non ha importanza. Non regala intensità né saturazione, nessuna emozione particolare. Persino l'aria che lo circonda sembra troppo umida e povera di ossigeno. Almeno per lui.

Su quello striminzito letto comprato in offerta all'Ikea, sopra al quale si ritrova ogni mattina nervosamente rannicchiato perché troppo corto, Lauro ha appena finito di sognare ma è sveglio già da un po', anche se si rifiuta categoricamente di aprire gli occhi, gonfi come dopo un incontro di boxe.

Una delle poche cose che ama quanto l'arte infatti, è sognare, che poi a dirla proprio tutta è anche la cosa più reale che fa.

Purtroppo il cuscino ingiallito, imbevuto di sudore e saliva, gli ricorda che è ancora raffreddato, e le lacrime calde gli rammentano che deve ritornare alla realtà un'altra volta, da solo.

Eppure basterebbe un battito di ciglia e in un istante il mondo potrebbe cambiare. Almeno il suo. Basterebbe una minima forma di decisione, un piccolo tentativo di scelta.

Questo però, e purtroppo lo possiamo dire con estrema crudele certezza[as4] , non è assolutamente il caso di Lauro, grande procrastinatore e piccolo cacciatore di rimpianti. La sua pigrizia mentale ha costretto le persone a lui vicine e gli eventi della vita a stravolgergli l'esistenza fino al punto da rendergliela quasi insopportabile, così tanto da non poterci neppure credere.

Prendetevi quindi, anche in questo caso, tutto il tempo necessario per scoprire come una serie di improvvisi eventi, decisamente troppo strani e casuali, abbia messo alla prova fin oltre il limite dell'umana sopportazione questo sognatore pigro e incallito, che ha compiuto da poco trentasette anni e cerca soltanto ora, con estremo ritardo, fra mille timori e senza troppa voglia, di affacciarsi il più lentamente possibile all'età adulta. [as5]

Si risveglia ogni giorno immerso nel tepore dell'alito umido di un piccolo paese lomellino vicino a Vigevano, che lo ha visto crescere; da oltre un decennio è un anonimo insegnante di storia dell'arte all'istituto Leonardo da Vinci: occhialetti rotondi da lettura, loden e giacca di velluto a coste in inverno, mocassini sempre e camicia azzurra in estate.

Ha vissuto con Adriana e Angelo dall'autunno del millenovecentosettantacinque fino alla fine dell'ultimo giorno dei suoi trentaquattro anni, fino a che non ha sentito la necessità di uno spazio tutto suo, di intimità e indipendenza... o forse, molto più verosimilmente, fino a quando non è stato gentilmente invitato da Angelo a cambiare aria per cominciare a prendersi qualche responsabilità.

Cambio di scena improvviso. Devo confessare: sono andata a sbirciare per vedere cosa lo giustifica. Aggiungerei un...il sogno si interrompe quasi sempre a questo punto.

uno solo

Punto. È fradicio di sudore e paventato dalla sensazione di vertigine che si avverte... e poi continua tu.

noi chi?

Sta cosa non mi piace. Fa tanto Piero Angela. Mi interrompi un racconto che mi prendeva per farmi analizzare il comportamento di un tipo? 

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