Le sensazioni di Gioia - di Claudia Brigida Speggiorin

1. LE SENSAZIONI DI GIOIA

Sandro aveva compiuto sessant'anni da due mesi ed era ormai conosciuto da tutti come il vecchio della montagna e ciò non gli dava affatto fastidio. Aveva avuto talmente tante donne ricche e bellissime che non gli dispiaceva l'idea di ritirarsi dal mondo per vivere come un eremita, spoglio di ogni avere. Aveva infatti, svariate volte, perso, vinto e perso nuovamente grosse somme di denaro al gioco d'azzardo. Un giorno, però, perse davvero tutto, anche la donna che amava. L'aveva puntata con l'intero il patrimonio in una partita a carte, convinto di riprendersi entrambi con gli interessi, ma l'avvenente avversaria (prima e unica donna sfidata) era stata più abile di lui a barare, pertanto vinse tutto ciò che egli possedeva, Ivette compresa. Gli rimaneva però una cassa da morto, custodita nell'unica stanza che abitava, un rudere di montagna di cui lei non volle spogliarlo.

Da piccolo, un giorno, chiese a suo padre: «Papà, quant'è grande il nostro conto in banca?" e l'uomo rispose «Sandro mio, ce n'è per te e per tutta la tua famiglia; il tuo papà è un uomo potente e tu sei il suo unico figliolo. Tutto tuo, sarà tutto tuo. Non avrà mai fine» e lui gli aveva creduto, pertanto si poté dedicare alla ricerca del piacere con un atteggiamento estetico raffinato, di un certo gusto. Attraversò il mondo per esplorare tutte le manifestazioni dell'arte, dalle primitive forme di un linguaggio di pietra alle più moderne e filosofiche opere contemporanee. Poteva viaggiare, ritornare, organizzare sontuose feste altolocate, amare femmine di classe, nelle quali rintracciare le rappresentazioni di tutte le dee adorate nel tempo e di nuovo partire verso nuove mete.

Poi il padre morì, portandosi nella tomba tutti i vani tentativi di renderlo un degno erede, così lui fu libero di spendere la sua laurea in lettere antiche per scrivere poesie d'amore in cambio di vini costosissimi. Conosceva le donne, ma soprattutto, le sapeva sedurre. Catturava quell'intimo narcisismo riposto in ognuna di esse, per tirarne fuori la bellezza privata e, poi, sapeva anche amarle, goderne e farle godere.

Una volta, un ricco impresario gli offrì ben dodici bottiglie di un prestigioso "Richbourg", imbottigliato in una delle più rinomate località vinicole della Cộte-d'Or, pur di avere un romantico biglietto d'auguri per la moglie. Lui sfoderò cinque piccolissime parole, così ben confezionate da lasciare ammutoliti tutti gli invitati al banchetto. L'impresario divenne il più sensibile e invidiato dei mariti e lui poté portarsi a letto la deliziosa consorte, per poi scolarsi in una sola notte nove litri di rosolio purissimo, insieme alla sua Ivette; 144.000 mila euro nuovissimi, appena coniati per una notte ubriaca e, a dire il vero, neanche così attiva. Di notte, libava miele e nettare agli dei e, di giorno, sfidava gli uomini col gioco d'azzardo, puntando senza troppi scrupoli un'eredità da scapolo d'oro. Quello era un piacere tra uomini, simile a un duello e, tale sarebbe rimasto, se solo non avesse ceduto alla seduzione di rischiare quel tutto lasciato dal padre per una folle notte d'amore a tre, da consumarsi tra le tette di Ivette e le fantastiche chiappe della Regina di picche, l'imbattibile baronetta dei tavoli verdi. Aveva un gran bel culo, sferico e massiccio ma, soprattutto, spesso. Emergeva dagli abiti attillati come un trofeo e, quando camminava, le natiche sode sembravano schioccare come i polpastrelli delle dita. Statuarie.

«Hai paura di perdere Sandro? O, forse, hai paura di essere il primo a vincermi?» e glielo aveva detto con una sorta di tremore, come se la possibilità di esperire la sconfitta la stesse eccitando o, almeno, così a lui era sembrato. La Regina di picche poteva permettersi di puntare se stessa e, poiché nessun uomo l'aveva mai battuta, rimaneva l'inafferrabile fantasia erotica capace di provocare una piccante tensione sopra e sotto il tavolo verde. Lei sapeva cosa voleva dire giocare e, per fortuna, destrezza o inganno, aveva sempre un asso nella manica o, nel reggiseno. Ebbene, quel giorno di sei anni prima, illuse Sandro con un intrigante sguardo d'inferiorità e, a lui piaceva quando le donne gli chiedevano di essere rimesse al proprio posto. Non gli riusciva proprio di resistere all'impulso di domare quella ribelle fragilità con cui esse fingevano di sovvertire i ruoli e, quando la Regina di picche, mai attraversata da membro maschile, gli consegnò l'occasione pubblica di vincere il primato, lui la colse al volo.

Lei puntava a Ivette, lui alla gloriosa dimostrazione di se stesso.

Solo all'ultima mano si rese conto di essere spacciato, finito, crollato poiché si era distratto troppe volte durante la sfida. La Regina di picche reggeva la carta tra le mani e si levò dalla sedia con prodigioso trionfo. Fece scivolare i palmi lungo i fianchi e, ondeggiando, rialzò l'orlo del vestito fino alla vita. Si voltò, infilò l'asso lungo il solco delle natiche lisce e lo fece scivolare, gemendo con sadico piacere. Era paurosamente attraente e lo teneva inchiodato alla sedia come un condannato a morte, poi passò la carta sul labbro tremante di Sandro.

«Peccato, mi sarebbe piaciuto tanto tu fossi stato il primo, non è necessario che la giri, vero?»

Si dileguò dalla scena tenendo Ivette per mano, schioccando le chiappe marmoree, belle, malefiche, milionarie.

Sandro non ci voleva più pensare; era acqua passata. Aveva un piccolo campo da coltivare, legna da scolpire, barba e capelli incolti, un rudere in cui riposare e tre cani di cui occuparsi, tra cui una cucciola di nome Eufrosine, come la dea della gioia di vivere che accompagnava Afrodite.

Aveva tutto il necessario per aspettare la morte, non gli mancava neppure la bara.

Come ogni giorno portò a spasso i tre cani. La montagna era inospitale in quei paraggi e la cucciola, ogni volta, gli imponeva di camminare in cresta, facendolo arrancare. Aveva scelto di risolvere il rapporto con il gentil sesso accudendola e lei, complicata e testarda come tutte le femmine che aveva amato, se ne approfittava...Le donne. Aveva perso se stesso pur di possederle e, a dire il vero, non ne rammentava neanche tutti i nomi, ma ognuna era stata speciale, unica, ineguagliabile. Ognuna si era meritata un gioiello di sua madre che, di gioielli, ne aveva avuti davvero tanti.

Sua madre. Non se la ricordava neppure. Era morta ancor prima che gli spuntassero i denti da latte; di lei gli rimaneva una fotografia soltanto, in bianco e nero, tutto il resto lo aveva dissipato nella speranza di ritrovarla da adulto, pronta a dargli amore in cambio di niente, come ogni madre sa fare. Essere amato senza condizioni, lui non sapeva cosa volesse dire, lui, neanche lo sapeva fare. Si era sempre aspettato qualcosa da quelle donne che, a loro volta, si aspettavano un qualcosa da lui. Certo, tutte raffinate, per bene, educate, bellissime, ma soprattutto, capricciose. Eppure, con quei capricci, lo avevano tormentato dolcemente e, non potendo fare a meno di sentirle insoddisfatte e ingorde di denaro dietro cui si concedevano, le aveva tentate con regali sempre più allettanti.

Ora che non possedeva più nulla, anche loro si erano dileguate, compresa la deliziosa Ivette, di tutte la più giovane, di tutte la più ricca, di tutte la più viziata. Stava ancora con la Regina di Picche e, con lei, faceva l'amore nella sua ex villa al mare, la stessa in cui avrebbero dovuto gridare di piacere tutti e tre insieme, se solo lui avesse vinto. Sandro, dell'amore, conosceva il volto più oscuro: la corruzione. A ogni modo non ci voleva più pensare, doveva cercare Eufrosine che si era addentrata, incurante dei suoi divieti, in un sentiero contorto. Era una cucciola femmina, poteva aspettarsi forse obbedienza incondizionata? Certo che no, così sventolava un biscottino sperando d'ingolosirla e, intanto, la richiamava con vezzeggiativi dolci, promettendo coccole e carezze.

Sentì un tonfo, poi una fanciullesca risata spensierata; bastarono pochi passi per trovare una donna sdraiata a terra, che sgambettava sotto l'entusiasmo della cucciola irrequieta.

«Eufrosine, spostati subito, lascia stare la Signora»

«Non si preoccupi, non mi divertivo così tanto da diverso tempo, quant'è simpatica e dolce» si tirò seduta con una certa destrezza, dando a intendere che si era lasciata sottomettere per puro piacere di gioco e, con pochi gesti raccolti, sedò il cane accovacciandola sulle sue gambe.

«Noto in lei una piacevole disinvoltura con i cani, ne possiede qualcuno?» La donna accarezzava la cucciola e rivolgeva l'attenzione a lei soltanto, tuttavia Sandro notò un candido sorriso, perfettamente allineato in una mezzaluna scintillante.

«No, mai avuti. Quanto tempo ha?»

«Sette mesi, quasi sette mesi, è tanto vivace e poco abituata a vedere persone. Mi sorprende di vederla così affabile con lei»

«Anche a me, di solito ho paura dei cani» la donna sollevò il viso e parve vedere Sandro o riconoscerlo e lo guardava con un interesse strano. I suoi occhi s'illuminarono di una luce accattivante. Sembravano vedere un altrove dove lui e lei si era già conosciuti o, forse, innamorati. Barlumi di gioia, ecco cosa vedeva invece lui, scintille di una speranza a lungo attesa da due amanti prima d'incontrarsi. La donna sostava immobile, ancora seduta, con uno stupore dipinto sul volto, dove lui poteva perdersi e ritrovarsi un'infinità di volte. Incarnava la bellezza di un momento e la paura di annegarci dentro

«Mi permetta di prenderle la mano, l'aiuto ad alzarsi» e lei si aggrappò e, una volta in piedi, continuò a stringergliela.

«Ciao, sono Gioia, io sono Gioia» e lo disse con una naturalezza inquietante, continuando a guardarlo con occhi stellati, pieni di un vuoto a lui noto.

«Piacere, mi chiamo Sandro. Le auguro un buon proseguimento di giornata e perdoni, se le è possibile, l'esuberanza della mia cucciola.»

Sfilò la mano e si congedò con fredda cortesia, mentre Gioia, abbassando lo sguardo, rimase ferma fino a quando non lo vide sparire oltre l'ultima curva.

Solo Eufrosine si voltò due volte, ma i bruschi divieti le impedirono di tornare indietro.

Sandro tornò a casa di malumore, ma una morsa allo stomaco pompava alla testa euforiche fantasie. S'arrabbiò con la cucciola per una sciocchezza del tutto trascurabile e, quando la vide mesta accasciarsi ai suoi piedi, la raccolse sulle gambe per coccolarla.

«Ammesso pure che sia interessata a me, cosa posso offrire a una donna che è di sicuro vent'anni più giovane, dimmi Eufrosine, mi vedi? Sono ormai diventato il vecchio della montagna. Cosa mai potrei offrirle?» ... una lacrima, un sorriso, un fiocco di neve, un fiore del tuo giardino, ce l'hai tu una sola di queste cose, poiché a me basta. Sandro impallidì, una voce ben intonata stava pian piano risalendo dal cuore, come un suggerimento o una risposta del tutto inattesa e imprevista. Certo, lui pensava a una romantica suggestione per darsi un tocco di importanza, come se nel suo nulla potesse avere ancora un dono da elargire, ma Gioia, invero, aveva sentito e cercava di rispondere per come poteva.

«Forza Eufrosine, andiamo a dormire, domani si scende al paese, speriamo di vendere qualcosa al mercato, piccola mia, se no stringiamo la cinghia di un altro buco.»

Gioia tornò a riempire gli occhi di Sandro e un qualcosa di molto caldo, simile a un brivido di freddo, gli percorse tutto il corpo. Desiderava stringerla tra le braccia e tenerla stretta al petto, anche solo un minuto, un istante soltanto. Voleva sentirne il calore della pelle, il fiato sul collo e il solletico di capelli sparsi sul proprio torace; soprattutto quello voleva sentire, poiché ogni donna aveva saputo procurargliene uno diverso e ora, quello di Gioia, quello mai provato, gli mancava più di tutti. Se solo l'avesse sperimentato - anche solo un minuto, un istante soltanto - sapeva che gli sarebbe continuato a mancare, non solo nel resto della vita, ma soprattutto in quella ormai trascorsa, quella dedita al bere e al drogarsi bene, quella inabissata nel gorgo di giochi sporchi.

Gioia era l'assenza capace di renderlo il più miserabile dei ricchi, Gioia era la presenza capace di renderlo il più ricco dei miseri.

Ma non ci voleva più pensare, voleva dormire e basta. L'indomani scese di buonora al mercato e, avendo abbondanti fiori e ortaggi da vendere, sistemò alla meglio il banchetto al centro della piazza. Eufrosine stava sbofonchiando ai suoi piedi ma, tutto a un tratto, si rizzò sulle quattro zampe e prese a correre all'impazzata.

Sei proprio una femmina pensò lui tanto ritornerai da me quando avrai fame. Poi sentì di nuovo un tintinnio allegro, come una fanciullesca risata di donna. Non voleva incontrare Gioia, non se la sentiva, di sicuro lei lo avrebbe guardato con occhi stellati e pieni di quel vuoto a lui noto, ma quando vide il suo viso spuntare tra i visi anonimi della folla, un fremito emozionato gli colpì le viscere. Sorrideva di una felicità per lui dolorosa e, quando arricciò la punta del naso, le trafitture divennero violente.

«Ciao Sandro» gli stava correndo incontro, con le braccia aperte su un seno tondo e prosperoso da lui non ancora notato e che gli era già addosso, compresso al torace da un abbraccio festoso e lui, lui non sapeva se stringerla o allontanarla, quindi restò fermo a contemplare fin dove arrivava la sensazione di quella calda e morbida sostanza di donna. Nel frattempo lei si era già staccata per volgere gli occhi al banchetto; li spalancò e di nuovo arricciò la punta del naso, colta da una vivida sorpresa. Faceva tutto troppo in fretta per Sandro, lo lasciava indietro, fermo nell'indecisione.

«Allora è vero, hai un sacco di fiori e di frutti nel tuo giardino.»

Lui le porse con affetto la mela più rossa e lei l'accolse nelle mani come un dono. Abbassò il volto e l'addentò con gratitudine e, intanto, parlava con il boccone in bocca e ne lodava la succosità, rumoreggiando tra i bocconi.

«È squisita, deliziosa, ha un sapore di buono, come le mele cotte con cannella che mi preparava mia nonna» e si era commossa davvero e gli occhi divennero tondi tondi, di un colore indecifrabile, sfumati di ricordo.

Diverse clienti si precipitarono al banchetto per comprare non solo le mele, ma anche il succo, le patate appena colte e gli uomini acquistarono fiori per le mogli o da portare al cimitero. Le richieste divennero insistenti e Sandro non riusciva a soddisfarle con la giusta sollecitudine unita a cortesia; o era veloce e burbero o lento e cordiale, non gli riusciva proprio di tenere insieme i due atteggiamenti. Gioia si mise al suo fianco e incominciò a moltiplicare sorrisi e gesti con una spontaneità del tutto naturale; dispensava ricette e intanto riusciva a servire due clienti per volta, chiamandoli addirittura per nome come se li conoscesse. Il banchetto di Sandro si svuotò in brevissimo tempo. Lui la guardava stordito, seduto su uno sgabello più sgangherato di lui e, intanto, teneva in mano una margherita, colta senza motivo dall'ultimo mazzo ormai venduto.

«Gioia, fai il mercato in qualche grande metropoli?» e lei scoppiò a ridere.

«No no, è la prima volta. A dirti il vero non sono neanche così tanto abituata a stare in mezzo alla gente, la mia è una natura un po'introversa» poi guardò il fiore e, forse, pensò che Sandro l'avesse trattenuto per lei.

«Hai visto, sono riuscito a tenerne una, cosa portavo se no questa sera a Ivette, la mia compagna»

Gioia si rannuvolò e anche Sandro, poiché non riusciva a spiegarsi come avesse fatto a dire una menzogna tanto sporca. Lui, quella margherita l'aveva colta per lei e anche Eufrosine abbaiò, forse per rimproverarlo.

«Già, ne sarà felice. E poi mi hai già donato una mela. Il problema è che noi esseri umani pretendiamo sempre un pochino di più; fino a ieri mi bastava un solo dono, oggi il mio desiderio è stato esaudito, ma già sento la mancanza di quello che non vuoi o puoi darmi. Perdonami Sandro, è in un grazie che si consuma la preghiera.»

Cadde il fiore dalla mano e rimase muto, rapito dallo stupore. Gioia stava sistemando cesti sul carretto, di cui lui si sentiva l'asino da soma, e pareva aver già ritrovato il sorriso, sorto tutto nuovo da quel senso misterioso che aleggiava sul loro incontro.

«Bene, scappo, grazie Gioia» disse lui, voltando le spalle e muovendo i primi passi del ritorno, poi, forse ci ripensò, posò il carretto, tornò indietro, le prese le spalle tra le mani per abbracciarla pur tenendola distante, e allungò sulla sua guancia un breve bacio. Se fosse stato ancora capace, l'avrebbe stretta forte a sé, cingendola con le braccia, strofinando a lungo il petto sul suo seno e poi...e poi basta, l'avrebbe semplicemente accarezzata, accostando le mani piano piano al volto, per contenerlo tutto nei palmi. Dove si era nascosto così a lungo il desiderio di accarezzare? Sentiva i polpastrelli afflitti dalla mancanza, non gli riusciva proprio di comprendere che erano, invece, tremanti d'attesa. Gioia era densa di sentimento, infatti aveva guance accaldate e una cascata di scintille negli occhi; ne sarebbe bastata una soltanto per farlo divampare di passione.

«Sento la tua presenza che mi sfiora, Sandro ed è...bellissimo. Sento il tuo tocco sulla mia pelle, invisibili contatti di tenerezza che mi tolgono il respiro. Di quale Bellezza siamo figli io e te?» Gioia era immersa in un dentro che apparteneva a entrambi e gli dava corpo, voce, forza, coraggio, verità e un profumo di casa che lui, non aveva mai sentito. Era ferma lì, dove lui l'aveva confinata, a mani giunte, davanti al campanile. Nulla chiedeva e molto aveva da offrire, sarebbe bastato allungare una mano sulle sue mani raccolte in preghiera e, infatti, le campane stavano suonando, ma qualcuno reclamò lo sgombero del passaggio, Eufrosine incominciò ad abbaiare e lui si sentì improvvisamente vecchio, voltò quindi le spalle a Gioia e s'incamminò verso la montagna. Quanta paura provava per quella donna inerme e remissiva? Aveva domato donne di razza, lui, donne che non solo facevano girare la testa, la facevano pure perdere, donne esperte che con uno sguardo sfilavano i calzoni, donne che lasciavano la scia quando passavano, donne che si davano a pochi eletti, eppure lui le aveva conquistate tutte e, a dirla fino in fondo, qualcuna la fece pure innamorare. Le manipolava, tutto qui, ma poteva dire di non aver mai ricevuto un rifiuto. Gioia era un bocconcino di scarto a confronto, non era neppure bella, ciò nonostante possedeva dettagli per lui strazianti; era il modo in cui muoveva il corpo a stuzzicarlo, ogni gesto, infatti, sembrava inserito in una danza e arrivava dritto al sangue, senza sosta.

Ad esempio, quando reclina il volto all'indietro, ecco, in quei momenti pareva colta dall'impulso di offrirsi e lui poteva avvertire la smania di morderle il collo, baciarlo, succhiarlo, lasciar cadere la saliva oltre le clavicole, lungo il seno, per poi berla calda di lei. Oppure quando un sospiro profondo le traboccava senza preavviso dal sorriso, ecco, in quei momenti sembrava incapace di trattenere il fremito di un'emozione piacevole, forse una fantasia, così l'addome veniva rapito da uno spasmo e lui poteva sentire l'istinto di esserne dentro e provocarne di nuovi.

Per non parlare poi dello sguardo con cui entrava a scrutare recessi segreti, glielo piantava dritto negli occhi, o forse nel cuore, per poi sciogliersi, diventare liquido e annegarlo di desiderio. Era quella timidezza risolta a eccitarlo, era la spontaneità gioiosa di quel corpo, felice di essere com'era, a invaderlo di paura. Arrivò a casa talmente assorto nei propri pensieri da non accorgersi della mancanza di Eufrosine. Posò il carretto, mise a cuccia i due cani e tornò al paese per cercarla. La chiamò lungo il sentiero del bosco e poi nella piazza, ma lei ne abbaiò né lo raggiunse Sarà con quell'altra pensò Al diavolo le donne.

La margherita giaceva a terra e, nel vederla, provò un conato di tristezza e, subito dopo, un altro ancora. Non era però intenzionato a subire la malinconia a causa di una donna qualsiasi, per di più sconosciuta, pertanto raccolse il fiore e sperperò tutti i guadagni del mercato per acquistare fiumi e fiumi del più scadente vino rosso esposto al supermercato «Qualche balorda come me la trovo» e, con tutto il carello, andò a trovare "la Merla". La chiamavano così perché, sotto, aveva tutti i peli neri, nonostante la testa si fosse incanutita ancora adolescente, ma lui era l'unico a chiamarla per nome. Quale fosse la sua età, nessuno lo sapeva; era invecchiata presto nel vendersi agli uomini e il rancore di un vecchio amore perduto le aveva ingrigito la pelle, tuttavia negli anni aveva imparato a far godere così bene i suoi clienti che l'avanzare del tempo era diventata la sua fortuna. Sopravviveva in lei un tocco di eleganza con cui aveva eluso la vecchiaia e Sandro sapeva stuzzicarlo con parole argute, con una lingua raffinata. Bussò alla porta mettendosi in posa, sfoderando una maschera a forma di sorriso e lei aprì, accogliendolo con una gentilezza che solo i clienti abituali sapevano riconoscere e apprezzare.

«Vecchio porco del monte, cosa ti porta in questo sudiciume?»

«Casa del piacere vorrai dire, mia dolcissima Luisa»

La Merla sorrise, di certo non cascava nelle lusinghe di Sandro, più semplicemente, le piaceva giocare. Affabulavano loro due, si usavano per dipingere una realtà più bella.

«Entri pure principino con tutta la sua carrozza» intendeva il carrello della spesa rigonfio di vino in cartone, ma Sandro le aveva già preso la mano per portarsela là, dove l'istinto era diventato duro come da tempo non accadeva e se la premeva contro, quella mano già palpante e furba.

«Solo se può entrare anche questo, mia regina»

La Merla rideva divertita da tanta vivace tensione.

«Non me la racconti giusta, vecchio, porta dentro anche il tuo bastone prima che s'afflosci e stappa una bottiglia di questo raffinato Champagne, vado a mettere le lenzuola di lusso» Ma Sandro non voleva aspettare, non poteva aspettare, voleva consumare subito.

«No, lascia quelle sporche, mi eccitano di più. Hanno lo stesso odore di quelle di Cuba o del Brasile o del Paraguay, stropicciate di sesso e calde di umori femminili. Rimani sempre giovane in lenzuola del genere»

«Ehi vecchio porco, stai attento a come parli, apri i calzoni e chiudi la bocca» c'era un limite che non si poteva oltrepassare con la Merla. Poteva udire, fare e raccontare le sozzerie più immonde ma non tollerava allusioni alla prostituzione minorile; anche lei aveva dei valori.

«Intendevo le donne mature, Luisa, quelle che ti fanno morire lentamente arrotolando un sigaro in mezzo al seno e tu, tu sai già che lo fumerai, mentre loro, in mezzo a quello stesso seno, comprimeranno il punto più debole e potente del tuo corpo, fino a farlo traboccare di gioia. Tette meravigliose, Luisa, tette che sanno amare, coccolare e che ti viziano con una dolce e spietata abitudine di cui, poi, non puoi più fare a meno.»

Intanto lui aveva già preso a denudarla, annusando a grandi respiri l'odore delle sue lenzuola. Sembrava rapito da una foga antica, risorta nelle membra divenute vigorose come allora. La Merla lo guardava incuriosita, non era di certo la prima volta che soddisfaceva le sue voglie e, solo lei sapeva quante volte aveva dovuto stuzzicarlo fino allo sfinimento pur di mantenergli dura l'eccitazione: ora confezionando moine raffinate, ora interpretando capricci, ora fingendo di non concedersi, perdendo in tal modo un sacco di tempo prezioso.

D'accordo, era la sua professione, ma a tutto c'era un limite, così, quando perdeva la pazienza e la fantasia, faceva con lui esattamente quello che faceva con tutti gli altri: glielo menava con un po' di vasellina per contrastare la secchezza del nido ancora tutto nero, se lo portava dentro con una mano, lo scrollava con due rapide ma efficaci mosse e lui, nell'arco di un sospiro, poteva cinguettare come un passerotto. In quella circostanza, però, la Merla si eccitò e, poiché un qualcosa di umido stava sgorgando dal basso ventre, si passò una mano tra le cosce, guardando Sandro con un'intenzione piccante negli occhi. La portò al seno e lo massaggiò, prendendosi tutto il tempo per godere da sola di quel gesto; aspirava il proprio odore e le piaceva e quel qualcosa di umido continuava a sgorgare. Lo raccolse con l'altra mano e di nuovo se lo spalmò nell'incavo, leccando intanto il punto più debole e potente del corpo di Sandro. Repentina fu la morsa tra i seni, inaspettata come un colpo di fortuna.

Lui poteva guardarsi, mentre sprofondava in tette desiderose di viziarlo. Lo sfregamento gli procurava una profonda voglia di spingere e provava godimento a sfiorare tratti secchi che opponevano un'impercettibile resistenza. In quel lieve e alternante attrito, poteva spalancare la bocca e stringersi forte le tempie tra le mani.

«Continua, stringi più forte, tienimi stretto nel tuo seno, non smettere ti prego. Come vedi sono di nuovo giovane. Qui non ho ancora sbagliato, posso uscire, prenderti per mano, baciarti nei crepuscoli di Zanzibar che, fra tutti, sono i più suggestivi e, subito dopo, baciarti di nuovo in un'aurora boreale a Ronas Hill, dove in estate il sole non tramonta mai, come il tuo sorriso. Posso amarti nel deserto di sale di Uyuni o nelle terre aride del Sahara, posso guardarti spuntare tra i geyser islandesi e, subito dopo, vederti in piazza Rossa, posso lasciarmi sedurre dalla tua danza in riva all'oceano pacifico o nei templi sacri del Kerala o sotto le piramidi e poi, posso portarti a casa, piccola mia, la nostra.»

Sandro zampillava, sui seni di tutte le donne incontrate e su quello mai avuto, così a lungo ricercato.

«Vecchio, ma di chi ti sei innamorato?»

La Merla rideva affettuosa, la sapeva lunga a proposito di uomini ma, soprattutto, una volta si era innamorata anche lei.

«Di te, reginetta e delle tue tette che sanno amare così bene»

Risero entrambi per l'ironia della sorte e per quello strano destino che li rendeva così simili l'uno all'altra.

«Bene, allora giochiamo agli innamorati, apri i tuoi cartoni vecchio, oggi non ricevo nessuno, ho ospiti.»

Così la Merla e Sandro bevvero fino a sera, seduti vicino come fratello e sorella. Ridevano come due bambini e se ne raccontarono di tutti i colori; la Merla spifferò particolari intimi sui clienti condivisi da entrambi, lei come puttana e lui come venditore e Sandro dipinse luoghi del mondo a lei ignoti, quelli in cui tanto aveva viaggiato alla ricerca di gioia. Tornò a casa cantando e cadendo diverse volte; non si era mai ubriacato così tanto bene in vita sua Se lo scoprivo prima che il vino in cartone era così buono, avrei risparmiato un sacco di soldi.

La luna brillava alta nel cielo, con un viso opalescente e gonfio di Gioia «Fra tutte, tu sei la celeste e inafferrabile bellezza che mi danna e mi condanna, Bonne nuit ma jolie femme.» Eufrosine gli corse incontro, scodinzolando all'impazzata e guaendo teneramente.

«Non mi hai lasciato, eh?!, Pensavo che fossi già pronta a tradirmi. Sei stata con lei vero? Bene, non farlo più, quella è una donna pericolosa.» Poi si addormentarono insieme sul tappeto. L'indomani Sandro si svegliò a mattina inoltrata, la testa gli doleva ma conservava il buonumore del giorno prima Le donne, non finiranno mai di sorprendermi. Anche la Merla ha le sue perle preziose. Eufrosine era ferma davanti alla cassa da morto e stava abbaiano per richiamare la sua attenzione. Un pensiero bizzarro lo adombrò di paura Non si sarà ficcata nella mia bara per aspettarmi? Sollevò il coperchio come se un fantasma (o meglio Gioia) potesse balzar fuori all'improvviso, Quella è capace di tutto pur di perseguitarmi. La luce filtrava appena, ma nulla, in quello spesso vuoto foderato di banco, pareva delinearsi, così la scoperchiò di colpo. Al suo interno trovò solo un piccolo biglietto, ripiegato su se stesso.

Lo portò al naso e percepì l'odore dolce e piccante delle orchidee del Madagascar, lo tenne vicino al cuore poiché sapeva chi lo aveva scritto. Lo aprì con cura, come se stesse scartando un dono prezioso e lasciò fluire un'emozione simile a una vertigine, emozionante come una caduta libera nelle cascate del Niagara. La calligrafia di Gioia era tonda, ordinata e incisa sul foglio con tratti arcuati.

Ciao Sandro, ho riportato Eufrosine. Ti ho chiamato più volte quest'oggi per dirti che stava scappando in direzione opposta alla tua ma non mi hai sentita, così l'ho rincorsa e tanto si è fatta seguire che mi ha condotta qui, a casa tua. Non ci sei e, nella tua assenza ho cercato tracce di te, perdonami, non ho resistito. Non m'importa affatto se ti arrabbierai, m'importa solo sentirti in questo momento. Ho bevuto dal tuo bicchiere per appoggiare le labbra dove le appoggi tu, ho sentito il sapore della tua bocca e del tuo respiro, poi ho sentito la tua sete, ho sentito anche quella e sono diventata acqua nel tuo bicchiere, bevimi Sandro, bevimi fino all'ultimo sorso. Ti scrivo adesso dal tuo letto e posso sognare tutti i tuoi sogni, i pensieri no, quelli non m'importano. Sono ora al confine del tuo sonno e lo veglio come un cielo stellato, sento l'odore del tuo corpo mentre sogna e il rumore del tuo tenue russare, mi sei accanto e stai dormendo tutte le notti della tua vita. Ti guardo il petto che si solleva e si abbassa sotto un respiro pesante ed è così bello Sandro che mi ci appoggio sopra con la testa e, finalmente, posso dormire anch'io il mio sogno di pace. Sento il suono della tua voce, roca di amarezza, ruvida di delusione, eppure colorata di campanelli e di barlumi di gioia. Dapprima la danzo e poi ne eseguo il canto; danzami Sandro, cantami, parlami, incalzami, vibrami poiché dai carne alla mia anima, poiché mi rendi materia viva femminile.

Se ti va domani alle quattro possiamo bere un caffè insieme, al bar della piazza. Io ci sarò e ti aspetterò. Gioia

Da dove arrivava questa donna? Che creatura era? Sandro era pieno di Gioia, innamorato di Gioia, euforico di Gioia. La sentiva da tutte le parti, dentro-fuori, la sentiva in casa, nelle viscere, nell'aria, nel cielo, nell'orto, nel passato, nel futuro ma, soprattutto, nel presente e le batteva forte nel cuore e nel punto più debole e potente del suo corpo. Era sbucata dalla cassa da morto e lui si sentiva così vivo, così uomo. Non c'era spazio per la paura, né per la vergogna, né per la colpa, né per quello strano complesso d'inferiorità che lo rendeva sordo e cieco; provava solo un'irrefrenabile voglia di Gioia. Bevve dal bicchiere, ne leccò il bordo, a occhi chiusi, fradicio di brividi sottili. Si riversò sul letto e affondò il volto nel cuscino; un odore di anima gli invase le narici, la bocca, il cuore e, intanto, spingeva giusto quel poco per sentire un fremito di vita scorrergli nelle vene e poteva boccheggiare piano piano, trattenere il piacere, respirare il profumo di Gioia e spingere nuovamente. Era carico di nostalgia e di un tenero rimpianto che gli stringeva il respiro con un nodo in gola desideroso di sciogliersi, poi traboccò un latte dolce d'orgasmo e s'abbandonò sul letto. Come si era ridotto? Da quanto tempo non si guardava più allo specchio? Prese la forbice e tentò di dare una forma più curata al cespuglio di rovi che gli era cresciuto al posto dei capelli, sfoltì la barba, tagliò e spazzolò le unghie, fece un bagno caldo e poteva essere di nuovo nell' antico hammam a Istanbul, proprio di fianco al palazzo ottomano sul Bosforo, o in uno più recente di Aleppo, quando lì ancora regnava la pace, dove lui si stava preparando per incontrare la sua Gioia.

Gli erano rimaste ancora delle camicie ma non riusciva proprio a trovarle. Poi, da una valigia mai disfatta e abbandonata in un angolo, saltò fuori quella da lui preferita, per altro ancora profumata o, almeno, a lui così sembrava. Spazzolò le scarpe buone e si vestì con cura, come in un giorno di festa. Si recò all'appuntamento in orario e, volendo godere di un'intimità appartata, lasciò i cani a casa, ma quando vide Gioia in sua attesa, gli sembrò di averla già vista in un campo di lavanda a Valensole o tra gli abeti rossi della taiga euroasiatica, non ricordava. Era certo, però, che lo aveva indotto a raggiungerla con un movimento lento della mano e, quando fu prossimo, lei scappò. Lui fece per acciuffarla sebbene fosse già oltre alla presa e, di nuovo, lei lo invitò a seguirla con un sorriso talmente dolce da gonfiarlo di potenza e fu così che si perse nel più seducente dei giochi. Rincorse la graziosa ninfetta incapace di prenderla e la brama crebbe fino a diventare irritazione, rabbia, furore, possesso e tanto più lui urlava, tanto più lei lo stuzzicava nascondendosi tra gli abeti rossi della taiga euroasiatica o nei filari di lavanda a Valensole, non ricordava, poiché era ubriaco.

Lo ritrovarono con la bava alla bocca, in preda a un delirio tremens, sconvolto da vivide e perverse allucinazioni. Come allora, Gioia appariva la più bella fra tutte le donne, vestita di una nudità imperfetta e divina, ricca di un fascino tanto semplice e pulito da inquietarlo di meraviglia. Era sopraffatto dalla pulsione di vendicarsi, di sporcarla, di possederla subito e col sesso più osceno, di offuscarle lo sguardo per renderglielo perverso. Voleva toglierle quella luce da dosso per lasciarle solo l'ombra e poi corromperla, comprarla, renderla più miserabile di lui, traviarla col più lurido istinto, contaminarla, ridurla a oggetto indesiderabile per sfogarsi e basta. Non riusciva a tollerare la bestia affamata che quella donna gli tirava fuori e, anche Gioia la sentiva ma a lei, quella bestia, non faceva paura, poiché l'amava. Avrebbero imparato a nutrirla insieme, pur lasciandola selvatica e indomabile. Avrebbero imparato a seguirne le tracce, a debita distanza, conoscendola giorno dopo giorno. Questo era l'unico modo in cui Gioia sapeva darsi, nutrire d'amore le ferite della mancanza. Quando vide Sandro curato e ben vestito, fu certa di esserne il motivo. Lo guardò con occhi carichi di una sensualità selvatica e, per farlo, richiamò alle pupille tutta l'energia istintiva che possedeva. Voleva darsi a lui in tutte le posizioni contemplate dal regno animale; voleva stargli sopra, sotto, di fianco, riversa, china, goderne appieno, dargli tutto il piacere che poteva offrirgli e poi, tenerlo abbracciato tutto nudo, baciarlo con morbidi morsi. Se anche il tempo lo avesse derubato di quel dettaglio che gli uomini confondono con la propria potenza maschile, per lei non sarebbe stato comunque un problema. Conosceva tante intimità diverse e, in ognuna, sapeva raggiungere e far raggiungere un orgasmo sempre nuovo.

«Sandro sei bellissimo, stai benissimo, sei proprio come...» abbassò gli occhi e si emozionò.

«Sto andando a trovare una mia amica e, infatti, ho un po' fretta»

Cercava di mortificarla per allontanarla ma, con Gioia, bisognava parlare chiaro, poiché non aveva ancora perso fiducia nell'uomo. Lei credeva a ciò che Sandro diceva e, se un'altra donna lo stava aspettando, non le sembrava corretto trattenerlo. Certo, le dispiaceva, ma lei voleva solo offrirsi; nulla chiedeva, nulla pretendeva.

«Ordiniamo subito il caffè così puoi andare, sei stato tanto caro a passare lo stesso, per me è una delicata attenzione» Non poteva credere alle sue orecchie, qualunque altra donna si sarebbe offesa o ingelosita, lei invece lo guardava con dolcezza disarmante.

«Abita poco più avanti, dalla piazza dovevo comunque passare, tutto qui»

Si sentiva nervoso, non riusciva a guardarla e muoveva concitatamente le mani sul tavolo. Poi sentì una scossa sui polpastrelli, come una violenta scarica di energia, li guardò ed erano appoggiati sulle dita di Gioia. Li ritirò di scatto, quasi arrabbiato ma lei sorrideva, la scossa appena percepita la rendeva reattiva. Aveva ormai stabilito un contatto di anima, di sangue, di atomi e parlava all'istinto.

«Hai delle belle mani, le ho sentite così tanto calde e poi sono grandi, capienti» Stava spingendo in avanti il seno e lui lo poteva vedere e, forse, anche toccare. Sentiva il preludio del piacere insoddisfatto esplodere nei capezzoli. Voleva stringerli forte per farle male e, subito, se ne pentiva. Doveva andarsene, ma arrivarono i caffè e lei incominciò a soffiare sul proprio. Raccolse le labbra in un polposo foro e lui poteva immaginare di schiuderlo con un polpastrello, per infilarle il dito in bocca e giocare con la lingua, fino a fargliela spalancarla e riempirla di sesso. Un ruggito animalesco stava erompendo dalle trame morbide di quella tenerezza per imporre visioni crudeli; voleva trasformare quel sorriso in una smorfia di dolore e goderne. Voleva infliggerle una punizione per essersi sottratta a lui nel tempo migliore, concedendosi in quello della vecchiaia. Doveva distrarsi, dire qualcosa, indirizzare l'energia verso altre immagini, doveva spezzare quell'incantesimo.

«Così, ieri sera, sei entrata a casa mia come una ladra»

«Ma no, la porta era aperta ed Eufrosine continuava a spingermi dentro»

«Non farlo mai più e non ti permettere mai più di usare i miei oggetti, di bere nel mio bicchiere e di sdraiarti sul mio letto. Non ti permettere neppure di aprire la mia cassa da morto, di scrivermi biglietti stupidi e di manipolare la mia Eufrosine per cercare di toccarmi il cuore. Mi devi lasciare stare»

«Scusami Sandro, hai ragione, non dovevo, perdonami» si era ritirata sullo schienale della sedia, colta da un improvviso freddo.

«E non venire più al mercato pensando di aiutarmi, hai fatto talmente tanto di quel baccano, altro che aiuto, senza di te mi sarei sbrigato prima»

«Questa è una menzogna, non è vero, eri felice.»

«Una come te è meglio perderla che trovarla»

«O dimenticarla»

Sandro la guardò. Il volto serio della donna era imperlato di dolcezza incompresa e lui ricordò dove l'aveva incontrata. Era un bambino e poteva avere sette, otto anni. Il grande parco della casa ormai perduta si estendeva fino al fiume e suo padre gli aveva raccomandato di non andarci da solo perché lì, vivevano strane creature con sembianze femminili che annegavano i bambini. Lui, quel giorno, ci andò lo stesso e vide una signora magnifica, seduta sulla riva. Stava intrecciando una corona di papaveri e fili di arcobaleno e, quando la posò sulla testa, sembrava una regina.

«Ciao Sandro, non annego i bambini come dice tuo papà, vieni a sederti qui»

«Conosci mio papà?»

«Certo, ma lui si è dimenticato di me, prima per gli affari e poi, quando ha perso la tua mamma»

«Conoscevi anche la mia mamma?»

«Certo, lei veniva a trovarmi tutti i giorni e, quando ha saputo che era tempo di andare, ringraziava la vita per averle permesso di metterti al mondo, eri la sua gioia. È per questo che non ha avuto paura del buio, la tua luce l'ha accompagnata nell'altrove»

«Era bella come te?»

«Molto di più, era la tua mamma»

«Secondo me papà si è dimenticato anche di lei, non solo di te, non ne parla mai.»

«Qualche volta chiudiamo a chiave nel cuore un dolore credendo di non soffrire.»

«E funziona?»

«No, quel dolore continua a crescere e poi gli viene una grande fame perché ci siamo dimenticati di averlo chiuso in gabbia e non può procurarsi il cibo. Quando poi apriamo il cuore a un altro sentimento, lui balza fuori e ci spaventiamo. Ma non è cattivo, è solo affamato e assetato»

«E cosa mangia, cosa beve?»

«Amore e lacrime»

«Come ti chiami?»

«Gioia»

«Quando sono grande ti sposo»

«Va bene, ti aspetto, non dimenticarmi»

«E come faccio a non dimenticarti?»

«Continua a tenere aperto il tuo cuore come oggi, ometto coraggioso e m'incontrerai ogni giorno»

«E se poi ho paura e lo chiudo?»

«In quel caso, e solo in quel caso, prometto che quando sarà tempo di incontrarci nuovamente ti riconoscerò io, poiché avrai perso la speranza. Gioia non si stanca mai d'inseguire gli esseri umani.»

Suo padre lo aveva trovato addormentato sul ciglio del fiume e gli diede tante di quelle botte che gli scappò la voglia di tornare in quel luogo, così quell'incontro o sogno o fantasticheria infantile si dileguò nelle nebbie della sua vita. Ora Gioia era di nuovo davanti a lui, bella come allora, forse ancor di più poiché memore, fiduciosa e con la sua promessa d'amore mantenuta. Scese una lacrima antica, come una goccia d'altrove sgorgata direttamente dall'angolo più oscuro del suo cuore e, poiché si vergognava di piangere davanti a una donna, si voltò di spalle, dirigendosi alla porta.

«Sono contentissimo, felicissimo di averti ritrovata, per me una gioia inesprimibile, grazie, grazie.» e non la guardò e non l'accarezzò, aveva nel cuore una bestia feroce di cui occuparsi.

Qualche volta, Eros, chiede di essere sacrificato.

Passò qualche tempo, forse alcuni giorni o anni interi, Sandro era ancora il vecchio della montagna ma tutte le mattine si faceva la barba e indossava una camicia pulita, d'accordo, stropicciata poiché non aveva mai imparato a stirare, ma fresca di bucato e, preferibilmente, colorata. Gli piacevano in particolar modo quelle con stampe hawaiane, trovava che gli davano un tocco di eleganza spiritosa. Era diventato abbastanza famoso nei dintorni per le statue che, tutt'un tratto, si era messo a scolpire nel legno; forme di donne meravigliose, capaci di far tremare le mani. Poi qualcuno giurò di aver amato grazie a una di esse, qualcun altro affermò di aver vinto alla lotteria, altri ancora di aver ricevuto un'eredità inaspettata o di aver trovato l'anima gemella; insomma sembravano portare fortuna e, di sicuro a Sandro la portarono poiché ne aveva vendute talmente tante da vivere dignitosamente nel suo rudere, ora diventato piccola casa accogliente. Anche la Merla ne aveva comprata una e, infatti, non si vendeva più agli uomini, aveva trovato un compagno e tutti la chiamavano Luisa. Ogni tanto andava a trovare Sandro e lei ancora lo chiamava vecchio porco del monte, con una complicità del tutto naturale, esplicita a loro due soltanto, allora Sandro si complimentava col novello fidanzato.

«Caro mio, sei un uomo proprio fortunato, hai saputo scegliere tette meravigliose, tette che sanno amare.» E ridevano poiché il passato non poteva più ferire. Il passato era passato, ma non dimenticato. Coltivava ancora l'orto e i frutti crescevano più rigogliosi da quando aveva sotterrato la cassa da morto "In memoria di me" aveva scritto sulla lapide (poiché aveva fatto anche quella) "Ma se proprio mi cercate, potete trovarmi in casa oppure nel bosco a cercare Eufrosine". Quella cagnetta, infatti, non era proprio cambiata, continuava ad addentrarsi in sentieri contorti, come da cucciola e lui, come allora, doveva arrampicarsi lungo pendii scoscesi per accontentarla. Poi, un giorno del tutto ordinario, lei prese a correre all'impazzata, sparendo tra il folto di una natura impervia, incurante dei suoi divieti. Era una femmina, poteva aspettarsi forse obbedienza incondizionata? Certo che no, così sventolava un biscottino sperando d'ingolosirla e, intanto, la richiamava con vezzeggiativi dolci, promettendo coccole e carezze. Sentì un tonfo, poi una fanciullesca risata spensierata; bastarono pochi passi per trovare una donna sdraiata a terra, che sgambettava sotto l'entusiasmo della cucciola irrequieta.

«Eufrosine, spostati subito, lascia stare la Signora.»

«Non si preoccupi, non mi divertivo così da diverso tempo, quant'è simpatica e dolce» si tirò seduta con una certa destrezza, dando a intendere che si era lasciata sottomettere per puro piacere di gioco e, con pochi gesti raccolti, sedò Eufrosine accovacciandola sulle sue gambe.

«Noto in lei una piacevole disinvoltura con i cani, ne possiede qualcuno?»

«Qualcuno? Ho appena aperto un allevamento proprio qua sopra. Come ha detto che si chiama questa simpatica creatura?» La donna accarezzava Eufrosine e rivolgeva l'attenzione a lei soltanto, tuttavia Sandro notò un candido sorriso, perfettamente allineato in una mezzaluna scintillante.

«Eufrosine, come la dea della gioia di vivere che accompagnava Afrodite. Posso avere l'onore di conoscere il suo di nome?»

«Gioia» rispose la donna, ridendo per quella particolare omonimia.

«Quale strana coincidenza, pensi, la stavo proprio aspettando. Piacere, sono Sandro» Gioia sorrise, mentre lui allungò la mano per aiutarla ad alzarsi e, al contempo, presentarsi.

«Ho la vaga sensazione di aver appena conosciuto un inguaribile seduttore.»

Così Sandro e Gioia presero a camminare l'uno di fianco all'altro, ma questa è un'altra storia.

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