L'intervista - di Massimiliano Agarico


«Non ti è mai successo di parlare con un assassino, vero? Che poi assassino non sono, è soltanto un maledettissimo equivoco. Non ho mai ucciso nessuno, se non nel mio cuore.»

Jaime, chiamato "El Rubio" dai loschi personaggi dei bassifondi di Barcellona, da un paio di settimane fugge tra un barrio e l'altro, cercando di non farsi catturare dalla Polizia e neppure da Tony, con la sua combriccola di delinquenti.

Mentre parla, il mio piccolo Sony registra appoggiato a bordo tavolo, e lo osservo come si farebbe con la carcassa di un animale morto da settimane. Puzza tale e quale.

È stravaccato di fronte a me, sopra una poltrona sudicia degli anni settanta, con la fodera in velluto marrone e la seduta sfondata. In mano tiene una banconota da cinquecento pesetas, ben arrotolata tra il pollice e il medio, e la fissa smanioso, prima di avvicinarla al tavolino di vetro che ci divide.

Ci appoggia sopra la narice e aspira forte, scostando di colpo la testa all'indietro come se lo avessero punto mille api tra gli occhi, e dopo averli strizzati comincia a lacrimare senza riuscire a smettere... eppure sorride, soddisfatto. «Puttanaccia!» esclama «Questa è una cazzo di bomba».

Ci saranno quasi quaranta gradi densi di umidità nella stanza, e una puzza insopportabile sputataci addosso a ondate tiepide dallo sgangherato ventilatore appeso sopra noi, eppure, nonostante sia il secondo conato di vomito che trattengo, questo stronzo sembra non sentire nulla. In effetti non dovrei esserne meravigliato, vedendo la montagna di merda che sta sniffando.

Accanto alla manciata di coca ci sono una bottiglia di rum scadente e un bicchiere di vetro opaco, con patina giallognola sul fondo e impronte di dita e labbra lungo i bordi, mentre sul pavimento ci sono fazzoletti di carta appallottolati come tumbleweed in un deserto senza vento.

La maglietta che indossa, appiccicata al corpo dal sudore, è piena di così tante chiazze che mi schifa anche soltanto immaginare cosa possano essere. Probabilmente ci si è soffiato il naso decine di volte, dopo aver finito i fazzoletti.

Poi la barba incolta, di un color rame appena più scuro dei capelli che gli nascondono lo sguardo, perso e scavato ma sempre sorridente. Fissa il mucchio di polvere bianca che ha davanti e dal quale separa enormi righe con una lametta, mentre, appoggiata sul posacenere stracolmo di cicche, brucia una Marlboro con il filtro schiacciato.

Dalle tapparelle abbassate dell'unica finestra al nostro fianco, filtrano lame di luce che servono a poco: troppo sottili. La vista infatti si abitua con fatica all'atmosfera, circondata dall'oscurità e una nebbiolina formata da fumo e condensa. Ma non mollo, voglio ascoltare tutte le stronzate che Jaime mi sputerà addosso insieme alla saliva della sua parlantina troppo veloce e a lacrime nascoste da sudore e orgoglio.

«Nemmeno tu credi alla mia innocenza, vero? Mi sono guardato allo specchio e in effetti faccio schifo. Non mi crederei nemmeno io, al tuo posto. Ma non sono al tuo posto. Ho vissuto tutto.»

Sì osserva la maglietta in cerca di uno spazio pulito, avvicinandone un lembo al naso che cola e soffiandoci forte sopra; dopodiché, prima di mollare la presa, osserva stupito... meglio non sapere.

Nasconde il volto tra le mani e, pur se sudato, la mossa non sembra soltanto un gesto per asciugarsi; penso lo faccia più per sfinimento e disperazione, mentre i capelli sulla fronte cercano di fuggire passandogli tra le dita. Forse una sua piccola parte di cervello rimasto sano sta riflettendo su come sia potuto arrivare fino a questo punto.

Per fuggire almeno con la mente, si impossessa veloce della banconota e, dopo aver sniffato un'altra riga, strizza per l'ennesima volta, con annessa imprecazione di piacere, gli occhi sempre più lucidi e arrossati.

Mi guarda stranito e sputa dopo un conato di vomito, poi prende la sigaretta e aspira fino a riempirsi i polmoni, soffiandomi addosso una nuvola grigia come il mondo che ci circonda.

«Chiunque penserebbe male di me e sputerebbe sentenze» sussurra con una voce che, tra alcol, coca e fumo, sembra graffiata dalla carta vetrata. Poi deglutisce e prosegue: «ma lo farebbe senza aver passato quello che ho passato io. Tu, invece», rincara puntandomi l'indice addosso, «sei sicuro di voler sapere quel che è successo? Perché quando ti ritrovi nelle mie condizioni è tutto schifosamente più complicato, come essere in bilico sulla cima all'Everest e guardarti le dita dei piedi ciondolare nel vuoto oltre il bordo del precipizio: sei solo e hai una paura fottuta, ma non vedi l'ora di lasciarti andare e mettere fine a tutto».

I suoi occhi allucinati spaziano nella stanza seguendo il nulla. Fissa poi il mucchio di polvere bianca e si sfrega le mani come un bambino, pronto per ripartire.

«Vuoi fare un tiro?»

«No, grazie. E dovresti lasciar perdere anche tu, per oggi.»

«Fanculo.»

Aspira, impreca e, mentre lacrima, mi guarda. «Registra daccapo e ascolta» mi dice picchiettandosi l'orecchio con l'indice, «non sarò sboccato, se riesco».

"Click!"

«Quel giorno, dopo l'ennesimo incubo, mi sono ugualmente sentito l'uomo più felice della Terra. Sdraiato, accarezzavo con i polpastrelli le labbra di Ariela, i suoi seni ingrossati e i capezzoli turgidi, le sue braccia che stringevano il corpo di Talitha accoccolato tra noi. Il tempo per lei sembrava essersi fermato, mentre per me correva sempre troppo. Sorrideva, persa in qualche bel sogno che avrebbe dimenticato al risveglio. Ariela e Talitha sono state l'unico pensiero in grado di distrarmi da coca e alcol, sai?»

Mi guarda allo stesso modo in cui dice di aver osservato l'alba dalla finestra: sollevato, con respiri profondi che sembrano alleggerirgli il cuore.

«Mi sono sdraiato nuovamente accanto a loro con gli occhi socchiusi, spalancandoli subito dopo aver sentito un cigolio... e lui stava lì, enorme, sulla soglia, a osservare Talitha e Ariela addormentate. Ha inclinato la testa di lato, facendo schioccare le ossa cervicali, ha sorriso e si è avvicinato al letto, alzando l'ascia che stringeva a due mani». Mentre parla mima il movimento, alzando le braccia che in aria fremono, e di colpo le fa scendere, come una mannaia.

«Abbatteva l'enorme ascia su Ariela e Thalita, con il letto che saltava a ogni colpo, mentre io ero immobilizzato da un enorme serpente e sentivo il rumore delle ossa che si spezzavano, senza dolore ma con paura. Tanta. Mi sono pisciato addosso, per il terrore.»

Strizza gli occhi e sussulta, come uno di quei drogati pazzi e visionari che con il pensiero sembrano rivivere vecchi momenti orrendi, o morirne.

La cosa più assurda accade però dentro al buio della sua testa: preda di spasmi, spinge la schiena contro la poltrona e tende le gambe. Urla. Un grido agghiacciante. Non paura o rabbia ma uno sfogo insopportabile, esploso perché trattenuto troppo a lungo... e conta. Una mania incontrollabile lo costringe beffardamente a contare: dodici, tredici, quattordici... e prima di proseguire a parlare, si affloscia come una bambola sgonfia.

«Sangue e brandelli di carne schizzavano dappertutto, impregnando lenzuola e pareti fino al soffitto; sia quando l'arma affondava colpi tanto potenti da trapassare il materasso, che quando il bastardo la sollevava sopra la testa. Ero un fottuto suddito lobotomizzato, obbligato a contare quei maledetti fendenti che straziavano l'unica ragione rimastami per vivere, senza riuscire a oppormi.»

Piange senza mostrare più nessuna sicurezza. «Cazzo» biascica tra un singhiozzo e l'altro, «non riesco ancora a crederci. Contavo i colpi di quel bastardo senza riuscire a fermarmi, neppure quando le lacrime cominciavano a mescolarsi al sangue che avevo addosso... finché ho perso il conto».

«Cosa?»

«Nel senso dello stramaledetto numero di fendenti. Dei brandelli di carne mi hanno colpito in faccia, distraendomi.»

«Quindi mi dici che eri sdraiato al fianco di Ariela e Talitha, immobilizzato da un serpente immaginario e contavi i colpi d'ascia di un'enorme ombra mentre le straziava?»

«Che il serpente e l'assassino fossero immaginari, lo dici tu. Io li ho visti. Non so se sia stato Vudù o un'altra cazzo di magia, ma erano nella stanza insieme a me. A un certo punto, ho lanciato un urlo tanto potente da farlo sobbalzare, il bastardo. Si è fermato a fissarmi, sorpreso, quasi intimorito, stringendo tra le mani la sua fottuta ascia grondante sangue, appoggiata sul letto e su quello che restava dei loro corpi.»

Avvicina la faccia alla mia, mostrandomi le ferite ancora fresche sulle labbra. «Vedi? Ho cominciato a mordermi le labbra, e dopo ho spalancato ancora la bocca contro quel maledetto bastardo, finché alla fine non ha abbassato lo sguardo e se n'è andato, strisciando sul pavimento la lama della sua ascia con un fastidioso tintinnio metallico».

Anche io comincio a respirare odore di sangue, vomito e morte, mentre Jaime, dopo essersi asciugato le lacrime, si piega nuovamente in avanti, sul tavolo, per aspirare un altro po' di morte bianca.

«La porta» dice, dopo aver starnutito un paio di volte, «era stranamente ritornata ad accostarsi nella stessa identica posizione di sempre, mentre io non ero più sdraiato, ma mi sono ritrovato in piedi davanti alla porta, nell'identico posto di quell'assassino... e ti giuro, non so come, dalle mie mani è scivolata a terra proprio la sua scure».

Davanti a me vedo un drogato, e mi perdo tra il provare per lui pena o terrore, lasciandomi poi vincere da una strana ma chiara consapevolezza. Osservo lo specchio appoggiato sulla sedia di fronte e stringo forte i braccioli della poltrona sopra la quale ho il culo sprofondato, piangendo di nuovo. Piango la mia pochezza di uomo e la mia vigliaccheria, ma in fondo non mi frega più un cazzo.

Il mio Sony si è spento da un pezzo e tiro l'ultima riga, alla faccia di tutti: Tony, Ariela, il merdoso mondo intero, a voi e persino a me stesso, che mi osservo allo specchio senza più stupore... perché è dura riuscire a essere sempre sinceri fino in fondo, a volte impossibile.

Prima di alzarmi, osservo il Gesù di gesso inchiodato sopra la porta d'ingresso, che prima o poi cederà, sotto quei colpi. Non mi ha aiutato in tutto questo casino, ma certamente non l'ho nemmeno mai pregato, finora; quindi chissà, forse non gli fregherebbe nemmeno ascoltare una mia supplica.

I colpi, sempre più arrabbiati, saranno di Tony o di qualche suo scagnozzo venuto a chiedermi soldi e vita per questa montagna di merda bianca ancora da pagare; oppure chissà, magari sono fortunato ed è solo la Polizia.

Leggo le parole tatuate sul mio avambraccio: "ad omnia finem", "fino alla fine di tutto". Mi alzo e vado in camera, dove una folata di vento putrefatto mi schiaffeggia fino a farmi vomitare. Appena mi riprendo, vedo gli sguardi dei corpi smembrati sul letto che sembrano sorridermi.

Mi invade un fremito di adrenalina, raccolgo l'ascia insanguinata e la lancio contro la finestra a picco sulla scogliera, frantumandola. Le grida confuse che sento non sono più soltanto nella testa, ma reali; mi intimano di stare fermo e lasciare l'arma.

Provo a rintanarmi dentro a qualche attimo di confusa attesa, ma ormai sono intrappolato in un incubo senza uscita, senza riuscire a spiegarmi come sia mai potuta accadere la malefica magia che mi ha scambiato con quell'orco assassino...

Jaime si porta l'indice e il medio sulle labbra, lanciando un bacio verso la carneficina rimasta sul letto, inclina la testa sulla destra finché sente schioccare l'osso cervicale e abbassa leggermente lo sguardo, incattivendolo.

Deglutisce, fa un paio di profondi respiri e asciuga la fronte che gocciola sudore e sangue, strofina gli occhi pieni di lacrime e comincia a correre per lanciarsi attraverso quel pericoloso varco nell'ignoto, sperando di finire il suo dannato volo come sente di meritare: tra gli scogli e senza più vita.

Alle sue spalle, insieme al boato della porta sfondata, si sentono urla ormai vicinissime, ma lui si è già catapultato fuori dalla finestra, volando alla disperata ricerca di una libertà purificatrice, che sia attraverso l'acqua oppure la dura roccia non ha più nessuna importanza ormai, perché i suoi occhi chiusi, adesso, hanno soltanto il desiderio di riaprirsi dopo un terribile incubo, oppure di non riaprirsi più...

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