George Stinney Jr. - La voce che non ascolterete mai


(Di Ferdinando Salamino)


Oggi vi parlo di una voce che non ascolterete mai. 

George Stinney, infatti, non è uno scrittore o un poeta.

Non è nessuno.

Non sarà mai nessuno.


George entrò nel braccio della morte e fu giustiziato sulla sedia elettrica nel 1944. Quando la prima scarica da 2400 volt lo colpì, aveva quattordici anni.
Venne arrestato e processato per aver ucciso due bambine di 7 e 11 anni, sulla base di una prova schiacciante: nei giorni precedenti la morte delle piccole, era stato visto raccogliere fiori assieme a loro.


Secondo le cronache dell'epoca, George confessò il crimine subito dopo l'arresto. Di quella confessione, però, non vi sono tracce, a esclusione delle note scritte dal poliziotto che lo interrogò a porte chiuse, senza avvocato e senza i familiari.
George Stinney non rivide mai nessuno dei volti che conosceva.
Alla madre, che chiedeva di poter parlare con il proprio bambino, fu detto che era contro la legge.
George Junius Stinney Jr. fu condannato in un solo giorno da una giuria di suoi pari.
Quasi.
Perché, forse non ve l'ho detto, George era nero, le bambine erano bianche e il tribunale era quello della Carolina del Sud.
Quella brava gente non ebbe bisogno di ulteriori prove o testimonianze.
Fu sufficiente quel nome, Junius, che odorava di catene di ferro e campi di cotone.  Nome che puzzava come marchio di bestiame, scavato a fuoco nella carne.

Bastarono gli occhi acquosi e quella pelle color pece, per essere sicuri.

Oltre.
Ogni.
Ragionevole.
Dubbio.


George Junius Stinney fu ucciso tramite elettrocuzione 85 giorni dopo. 

Era troppo piccolo di statura, per la sedia, quindi il boia lo fece sedere sulla Bibbia che portava sotto il braccio.
La prima scossa fece saltar via la maschera protettiva, rivelando il suo volto in lacrime e la schiuma che gli usciva dalla bocca.
Ci vollero altre due scariche per finirlo, tra gli applausi scroscianti di chi assistette all'esecuzione.


Piangeva, George, mentre moriva.


Questa è l'unica voce di lui che potremo ricordare, il pianto elettrico e gorgogliante di un bambino illuminato a giorno come una piccola città.


Morì da solo, George, con la bava alla bocca e Dio sotto il culo.


Ci vollero meno di tre mesi per ucciderlo, ma occorsero settant'anni per scoprire che, dopotutto, George era innocente.
Alla lettura della nuova sentenza, la sorella, di settantotto anni, ha ringraziato.
Non ha insultato, non ha sbraitato.
Ha guardato il cielo, forse convinta che George sia con quel Dio che lo aveva aiutato a morire, lo stesso sul quale, fino all'ultimo, aveva giurato di non aver fatto nulla di male.


Può darsi che abbia ragione lei.
Magari esiste un Paradiso, per i bambini uccisi dalla brava gente in cerca di colpevoli, e George se ne sta lì, a spingere un'altalena con sopra una ragazzina magra dal viso pallido e i capelli corvini che da grande, dice, farà la scrittrice.


Io, che sull'argomento nutro qualche dubbio, non riesco a togliermi questa storia dalla testa.
Da quando l'ho letta, è un fantasma che non mi abbandona e credo, se volete saperlo, che abbiamo bisogno dei fantasmi.
I fantasmi ci ricordano le cose che vorremmo dimenticare. Ad esempio che ci siamo sentiti tanto bravi, settant'anni fa, mentre mandavamo a morire un bambino perché il suo colore ci faceva paura e perché il suo nome puzzava di schiavitù.

Il fantasma di George ci guarda anche oggi e Dio solo sa cosa pensa, quando guarda i corpi a galla nei nostri mari.

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