Talento (di Gino Panariello)

A tredici anni considerava figo riuscire a fare gli anelli di fumo e la sua massima aspirazione era riuscire a tenere la sigaretta in bocca senza farsi accecare e senza tossire. Il segreto era aspirare con la bocca la colonnina di fumo all' estremità. Con molta costanza ci riuscì, realizzò la sua aspirazione di tramutarsi in una specie di Humphrey Bogart minorenne.
A quindici invece la sua idea di ganzo consisteva nel rollare una canna nel minor tempo possibile.
Riuscì anche in questo.
Diventò una specie di celebrità perché sapeva fare delle canne perfettamente dritte, praticamente delle sigarette; era richiestissimo anche per la capacità di stappare le bottiglie di birra coi denti; il terrore dei tappi a corona, non esisteva bottiglia che gli resistesse.
Un successo dietro l' altro, insomma. Iniziato con le gare di sputi che vinceva coprendo anche i dieci metri di distanza e con le testate in faccia a tradimento mentre fingeva di guardare a terra. Con gli anni progredì e imparò persino a sfilare i portafogli nei luoghi affollati, a farsi le pere mentre camminava nel mercato di Porta Palazzo o guidare coi fari spenti di notte tra le campagne sulla reale, dopo aver rapinato qualche puttana nigeriana, le albanesi e le romene preferiva risparmiarle perché erano molto più tutelate: i papponi giganteschi dagli occhi chiari e i crani rasati su colli che sembravano tronchi di quercia erano capaci di ammazzare con la sola forza degli schiaffoni.
Ma il suo talento consisteva anche nell'evitare situazioni del genere.
Il talento.
Adesso, a quarant'anni, guardava la strada dalla stanza buia in affitto . Gli piaceva spegnere la luce e guardare alla finestra la gente che passava, come gli piaceva guardare le luci nelle case degli altri.
Gli piaceva immaginare le voci, il calore dei termosifoni, l'odore della cucina. Gli piaceva, anche se gli faceva abbassare gli occhi e appesantire il respiro .
Le luci nelle case degli altri rappresentavano tutto ciò a cui non aveva mai pensato.
Fino al giorno in cui il suo vecchio gliel'aveva detto.
" Sai perché ti odio? Perché sei tutto quello che non avrei mai voluto fossi. Ti odio perché ti è riuscito tutto quel che volevi, ma quel che volevi era solo merda, perché hai usato il tuo talento per fare schifo quando avresti potuto brillare ed essere un uomo degno di tale nome."
Così gli aveva detto.
Il talento.
L'aveva usato per buttare via tutto, il talento.
Per la derisione, confusa con l'ammirazione, di chi rideva ascoltando le sue storie.
Per la gloria da bar dei balordi, per gli applausi di chi, in cambio di una pacca sulla spalla, di un minimo di sprezzante considerazione, gli avrebbe voltato le spalle senza pensarci un solo secondo.
Per i Tso, i corridoi della neuro, gli arresti, le manganellate, i lavori negati, le mani che tremavano e la solitudine.
Per farsi dire dal suo vecchio quanto lo disprezzasse.
Per ritrovarsi a quarant'anni da solo in una stanza al buio, guardando le luci nelle case degli altri.
Si stese sul divano e si addormentò. ...

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